20080921

Il Pazzo di Gioia



Tratto da:

Il talento dell’impostore Munal - Francisco Jimenez

Indubbiamente il lavoro a Typler non era mai piaciuto.

Lavorare stanca.

Da giovane aveva anche provato; e l’aveva cercata a più riprese, un’occupazione piacevole e leggera. Senza successo purtroppo.
Aveva provato un po’ dovunque: Agenzie letterarie, Assicurazioni, Studi notarili e posti simili. Ogni volta con entusiasmo minore.
Ogni volta più disarmato, e più sicuro ... che un lavoro adatto a lui non esisteva. Si convinse inoltre che era proprio il lavoro in sé a non andare. E allora? Che cos’altro poteva concludere, se non che un’occupazione valeva l’altra?

Abbattuto, aveva scelto la tipografia di famiglia.

Suo padre ne era stato quasi felice. Lui no, naturalmente. Anche se non era un lavoro vero e proprio, perché della tipografia ne sarebbe stato il padrone, era pur sempre, il suo, un noioso mestiere. Dunque una cosa spiacevole. E già ne immaginava le più fosche conseguenze.

Infatti ...

Aveva appena cominciato a frequentare piombi e rotative che subito era venuto a galla, e s’era fatto via, via più chiaro, più vivo, un brutto non so che, qualcosa ... qualcosa che stava fra Moravia e Sartre.

– Del resto – diceva lui, – sempre e solo manifesti, opuscoli, brochure ... e niente più.

Perciò faceva i suoi bilanci. E non tornavano.

È vero. Un uomo deve avere una professione e lui l’aveva; deve avere degli amici, e i suoi erano sfaccendati, ma c’erano; deve avere una famiglia intorno, e la sua c’era, anche se li guardava tutti e due, suo padre e sua madre, come degli estranei.

E però nient’altro.

Ogni giorno i gesti consueti: lavoro, tennis, caffè in piazza, qualche avventura grigia e triste. Nessun amore vero. Avrebbe saputo anche scrivere, Typler, ma aveva sempre resistito alla tentazione di farlo. Insomma, niente gli dava felicità.

– Era colpa del mondo? – si chiedeva. – O colpa sua?

Certi giorni, rari, ma impietosi, il dubbio gli tornava su come un cibo indigesto che non vuol star giù.

Era lui che era fatto male? Fu questa domanda a portarlo in analisi.

A portarlo in analisi e fargli conoscere Melanine.

Melanine era lievemente meticcia.

Ma appena, appena: padre della Martinica, madre italiana. Typler la incontrava ogni mercoledì, lungo le scale, alle 10 e 25. Deposta ogni enfasi, lei scendeva quei grigi gradini, proprio mentre lui, andandole incontro, li saliva per discenderli poi un’ora dopo, deposta ogni enfasi a sua volta.

Stesso analista. Al secondo piano.

Dapprima evitarono ogni contatto: lui rasentava il muro, lei la ringhiera. Senza guardarsi. Poi i loro occhi si levarono un po’, ma per alcuni mesi si guardarono soltanto. Infine ci fu un timido Buongiorno: sapevano quello che li univa. Era la solidarietà degli oppressi. Anche se nessuno dei due lo era.

A rompere il ghiaccio fra loro fu semplicemente il caso: una libreria, un giorno di sole, un caffè del centro, due analcolici.

– Che fai di bello nella vita? – le aveva chiesto lui.

Lei rispose che lavorava come tecnico bibliotecario all’Istituto di Italianistica. Tre giorni alla settimana. Per il resto, leggeva di tutto. E scriveva (parole sue) cose impubblicabili: di questo ne era convinta anche lei, e tuttavia ...

– Hai mai pensato a pubblicazioni APS: a proprie spese? – aveva chiesto lui.

Sì, certo, ma non aveva mai soldi a sufficienza. Così continuava ad aspettare. Come mai questa domanda? Per caso lui faceva l’editore?

- No, no, magari! Possiedo solo una tipografia.

- Peccato! – disse lei. E gli sorrise.

Da alcuni anni lavoro come psicologo nella clinica per malattie mentali Villa Adele. Non sono del tutto contento del mio lavoro. Me ne rendo conto alla sera, quando ripenso agli eventi della giornata e trovo sempre qualcosa che non va.

Tuttavia sono fortunato, nonostante sia giovane ho trovato subito un lavoro. Anche se purtroppo devo collaborare strettamente con un certo Medici, ruvido psichiatra vicino alla pensione. Non ci vuol lavorar nessuno, con lui. Così, ultimo arrivato, tocca a me. Figurati: io di formazione dinamica e lui di formazione descrittiva. Non ci vado d’accordo neanche un po’: il suo approccio sbrigativo, le categorie vetuste, i suoi stessi modi, mi danno gran da fare.


Come è successo ieri per esempio.

Ieri ha ricoverato un certo Robert Sterne. Anni trentacinque, diagnosi di episodio maniacale in soggetto bipolare (secondo il Medici). Devo dire che la diagnosi è sbagliata?

Lo è.

Ho avuto due colloqui col degente. Credo che sia un narcisista, o forse un istrionico, o un particolare tipo di impostore. Ma maniacale proprio no. Non è quello il suo problema.

Il vero interesse psichiatrico che ha per me questo paziente è che potrebbe essere un impostore. Perché, se fuori nel mondo abbondano, nelle ricerche psicologiche siamo davvero a corto di impostori.

Comunque, dicevo, gli ho parlato. Uno scrittore. A portarlo qui da noi sarebbero state solo alcune manifestazioni un po’ vivaci, magari anche euforiche se vogliamo, da lui espresse purtroppo in luogo pubblico, per la felicità d’aver trovato la sua strada, ossia un nuovo modo di composizione letteraria: riprendere gli originali dei maestri e fare opere migliori delle loro. Produrre palinsesti con una tecnica di sua invenzione. Secondo lui, uno sballo.

Secondo me, se non ho capito male, un’impostura. Si tratta di copiare senza che se ne accorgano, no?


Non sono naturalmente sicuro che lo sia ... se però avessi fra le mani un impostore, sarebbe – accidenti! – un vero scoop, e non me lo lascerei certo scappare. Tra l’altro l’impostura è oggi argomento di moda nel nostro Ordine.
Impostura e altre cose affini.

Eh sì! C’è molto da fare su questo fronte. Soprattutto in casa nostra. Lottare contro gli abusi professionali dei filosofi, contro il soverchiante potere dei medici, contro chi elargisce ai giovani speranze di lavoro inesistenti, contro le troppe scuole di psicoterapia e di counselling; rispondere infastiditi all’imman cabile, telegrafico, infantile, ingenuo “perché non facciamo qualcosa?”, elaborare gli smacchi processuali subiti da sedicenti psicoanalisti ... via ... qui intorno il mondo pullula di psicologi traditori, di finti psicologi, di presunti guaritori, di palestre New Age ... siamo come un forte assediato. Per tacere dei tanti colleghi anziani entrati nell’Albo senza la laurea in psicologia.


Su quest’ultimo punto però la questione è imbarazzante.

Almeno per me. Come potrei scordare che fra questi ci sono i padri fondatori delle prime Facoltà di Psicologia, i professori con cui ho dato gli esami, quelli che mi hanno insegnato le prime cose, che mi hanno proclamato «dottore in psicologia», ecc. ecc. Date queste premesse è ovvio il mio fastidio di sentirli chiamare, questi padri, «abusivi legalizzati»; e di sentir dire: – Si facciano da parte!


Anche perché ricordo quel che diceva spesso mia madre: – I calci nel didietro te li danno sempre con le scarpe che gli hai regalato tu. E io questo non voglio farlo: le mie scarpe le ho avute da loro. È vero, vaga fra noi lo Spettro della laurea in psicologia. E per Lui questi maestri sono degli irregolari.

Però, torno a dire: – Io non posso ...

Anche se la loro propensione, forse preparazione, filosofica, sociologica, pedagogica, letteraria, che io non ho, mi disturba non poco. Troppo colti. E vista la nostra ingratitudine, portati all’isolamento orgoglioso. E poi ... la cultura è pericolosa, coraggiosa, specie se risentita, provocata. Magari da un giorno all’altro questo Sterne, il «ripetitore», tanto per fare un caso, potrebbe «ripetere» i miei modi e fare il terapeuta meglio di me. Basta solo che s’inventi il counselling letterario. Ora che l’idea del counselling è lanciata, che l’onda è partita, chi la ferma più?

Poi è meglio che l’ammetta onestamente: Sterne mi intimidisce.

Non solo mi capita un impostore, categoria di cui so quasi nulla, ma uno studioso di letteratura. Di cui so ancora meno. Una sinergia micidiale per uno scienziatucolo come me. Che non ha mai messo il naso fuori dalla psicologia. Ma non mi lascerò attrarre nel vortice della letteratura. Anche se il ragno seduttore farà di tutto per avvolgermi nella sua tela.

E allora ... regole! Nei nostri colloqui ci si deve attenere alla psicologia.

Come ho già detto: dell’impostura si sa poco. Tranne i pochi saggi di Abraham, della Greenacre o della Deutsch, non c’è altro in giro, che io sappia. E però quasi quasi, mi son detto, meglio così. Andrò incontro al caso più pulito, con un sapere senza fondamenti. Cercherò anzitutto di capire cosa gli è accaduto negli ultimi mesi a questo Robert e da dove trae le parole del suo raffinato farneticare. Sì, perché parla come un manuale di retorica.

Ricordo ancora il primo incontro: doveva essere un colloquio di routine. Ma per me non è stata una passeggiata.

Robert appariva eccitato quel giorno, ma la fuga d’idee non c’era. Era possibile ascoltarlo con ordine e attenzione. Anche se parlava di questioni che non conoscevo, con parole che non sapevo. Ah! Era una persona dall’eloquio affascinante il nostro letterato, non c’è dubbio! Almeno ... a me ... così sembrava. Insomma, mi conquistava. Ma gli impostori immagino che abbiano tutti un loro fascino segreto.

Credo però che il Medici tale qualità nascosta non la notasse nemmeno.

Lui è sicuro che gli impostori siano dei perversi. Ma di questo paziente che sia un perverso non lo si può proprio dire. Questo Robert è strano, è vero, atipico, ma non è né un nevrotico inconsapevole, né un abile ingannatore, perché lui, il proprio metodo, la propria seduzione, lui non li nasconde. Anzi li espone, li difende. In primo luogo la sua tecnica è del tutto voluta, consapevole, e in secondo luogo la vuol spiegare al mondo. La difende e si propone di diffonderla. Anzi, vi è in lui anche una specie di rigore, di severità verso l’impostura. Se non sto attento, a tratti mi pare d’esser io l’impostore, non lui.

Ma forse un po’ impostori lo siamo tutti. O no?



La terapia analitica, con Typler, il tipografo, non aveva funzionato.

Quando, un anno dopo l’interruzione della cura, gli si presentò Melanine, e con quel plico in mano, lui lavorava nell’apatia più completa. Sicché, fu felice del suo arrivo. E quasi lo fu che gli portasse un manoscritto. Anche se sapeva che non scriveva bene, l’arrivo di Melanine era almeno un nuovo evento. Di manifesti, opuscoli e brochure ne aveva piene le scatole.

Interrogata dal suo silenzio, lei disse d’avere un po’ di soldi.

– E te li voglio lasciar qui, se no succede che me li spendo male e subito.
Rassegnato, annoiato, indifferente, Typler ormai non leggeva più quello che stampava. Questa volta però avrebbe fatto un’eccezione. Si trattava di Melanine, perdìo, non solo del suo romanzo. Melanine, la sua sodale di analcolici e transfert. E ora anche APS: Autore a Proprie Spese. Anche a lei la vita dunque non andava a gonfie vele. E adesso, arrabbiata col mondo, voleva il suo libro a tutti i costi. Ci provava così, ad avere un minimo di rivincita. Ebbene, per lei ... ma anche perché ci pensava già da un po’,avrebbe fatto le noiose pratiche per diventare anche un editore.
Insomma, finalmente un po’ di movimento.

E tuttavia a Typler lei raccontò una strana storia.

Strana? Incredibile, direi. Questo romanzo ... non era suo, gli disse, ma di un amico morto in manicomio, e solo lei sapeva di questo scritto. Esisteva un’unica copia, scritta a mano, e ce l’aveva lei. Era quella lì che lui vedeva. Gliel’aveva consegnata l’autore, proprio in clinica, in una delle tante visite che lei gli aveva fatto. Lo era sempre andato a trovare, Melanine, nelle poche settimane di ricovero e aveva parlato coi dottori. E lo psicologo aveva parlato con lei, come se fosse l’unica parente. Lei e lo psicologo avevano assistito, insieme, impotenti ambedue, alla distruzione di uno scrittore. Ora il romanzo ce l’aveva lei e voleva curare la sua pubblicazione.

– Lo faccio per lui, – aggiunse, – perché il lavoro di Robert non
vada perduto.

Typler non sapeva se credere a tutta questa storia, gli sembrava
strampalata.

Sospettava semplicemente che quello fosse uno dei suoi soliti scritti, che lei stessa definiva impresentabili. Pensava che lo credesse ancora una volta da cestino e per correre minor rischio si nascondesse dietro un nom de plume. Insomma, pensava che Melanine attribuisse il suo lavoro a un altro, un amico inventato, e che, per maggior sicurezza, volesse questo inesistente amico in copertina.

Typler, il romanzo, lo lesse per un po’; ma lo restituì poco dopo, ancor prima di finirlo: gli sembrava troppo bello e per di più troppo innovativo per una come Melanine. Si servì però di una scusa graziosa; non capiva la sua grafia, le disse, e la pregava di batterlo a macchina.

Quella dilazione gli serviva anche a prender tempo: gli era venuto il sospetto che quello fosse un plagio. Anche se ancora non sapeva né chi fosse il plagiato, né naturalmente chi fosse il plagiatore: se Melanine o il suo amico morto in manicomio.

Lei lo aveva chiamato Robert, il presunto autore. E diceva di conoscerlo da tempo, di averne seguito il lungo processo creativo, di averne accolto l’intimo tormento.

Pretendeva di conoscere persino il suo TSO, il Trattamento Sanitario Obbligatorio che aveva subìto, e anche le ragioni della sua gioia e del suo ricovero.

Le ragioni del ricovero di Robert Sterne, stilate dallo stesso Medici, parlano di fuga d’idee, logorrea, euforia. Sono d’accordo, è davvero follia, ma follia del dott. Medici, non di Robert. Lui non lo ha nemmeno interrogato il paziente, nemmeno ascoltato. Non ha cercato di capirlo; non gli interessa, a Medici, capire. È davvero incredibile: siamo assediati a destra dagli psichiatri e a sinistra dagli impostori.
E non ci puoi fare niente; né di qua, né di là.

Oh! Non che il mio ascolto di Robert abbia dato importanti risultati. È soprattutto evidente che il suo scopo principale è convincere me, e con me il mondo intero, che lui non imbroglia nessuno, che non è un’impostore. Che il suo metodo è originale, è proprio suo. Che ha molto faticato, ma ora, per un giro di vento, fattosi di colpo amico, la sua abilità ha raggiunto una punta di genialità; una strada nuova, non codificata dalla cultura ufficiale e dal senso comune. Che non capisce perché l’abbiano portato lì. Non è malato, lui ... è solo felice. Ormai il metodo è suo, e non glielo porta via nessuno. Un suo libro uscirà presto, prestissimo. Ne esiste una sola copia manoscritta, che sta nelle mani di un’amica fidata, e quando lui uscirà di qui, la sua scoperta andrà dritta filata in tipografia.

E però desidera spiegarmi.

Desidera dirmi, e devo convenirne se ci penso bene, che lui non si è nascosto, che è stato lui stesso ad annunciare questa scoperta al mondo. Non c’è nessun segreto dunque, nessun imbroglio.

– In cosa consiste questa novità? – gli chiedo.


Lui è un trasformatore di materia, mi dice, un alchimista, un «ricreatore». L’ultima parola è quella che usa di più: «ricreatore». Un tema non facile per i non addetti, ma con pazienza lui mi spiegherà.

Il suo processo compositivo parte da una materia che non è tratta dal mondo, ma da libri, libri altrui, e la sua abilità, il suo contributo, né piccolo, né facile, consiste nel trattarla. Non sta nel materiale, dunque, l’originalità, ma nella disposizione e nel trattamento. Ma come? Non lo sa, la gente, che è quasi impossibile ormai attingere in modo nuovo al mondo delle cose, che le storie son già scritte tutte, e le parole usate tutte, e che si può solo trasporre il già scritto in nuova forma d’arte?

Leonardo copia un viso, lui copia un libro. Anzi più libri.

Ma né il viso di Leonardo, né i libri suoi saranno come gli originali. Gli scrittori riciclano quel che gli è piaciuto nella vita. Leggere molto e «copiare bene» (e faceva con le dita il cenno delle virgolette) è la regola. In questo “bene” stanno tutta la legge e i profeti: un accostamento improvviso di due copiature non congrue, il mescolare due autori poco mescolabili.

Insomma, Robert pretende di affermare la propria identità nell’opera di accostamento, trasposizione, opposizione, che esegue con un metodo peculiare, metodo che è la sua firma, non ancora rivelata, e che si potrà capire dal suo libro.

Rifletto: forse non manipola, magari è anche nel giusto. Forse vuole solo imporre il suo metodo. Ma io sono uno psicologo, non un letterato. Uno psicologo, per di più, desideroso di avere un vero impostore fra le mani. E questo Robert, se andiamo avanti con queste teorie, rischia di non esserlo. Così non demordo.

– Chi è questo Robert? – mi chiedo. – Cosa trasforma? Nella sua famiglia ci sono storie di impostura?

Attendo dunque la sua storia familiare. Voglio fare un nuovo tentativo di
riportarlo con forza alla psicologia.


Nel romanzo che Melanine aveva lasciato in tipografia i medici ci escono male. Ma nemmeno la psicologia vi appare come l’ombelico del mondo. Lei (o chi per lei) vi scrive, infatti, che forse farebbero meno danni alla gente i filosofi e i letterati che non i medici o gli psicologi. Ciò non desta meraviglia, conoscendola.

Naturalmente lei sosteneva con Typler che era Robert, e non lei, a dire questo. E poiché sapeva di non convincerlo del tutto, di Robert gliene volle parlare ancora un po’.

Lui l’ascoltava volentieri.

Robert non aveva una carriera brillante dietro di sé. Prima aveva fatto il lettore di lingua madre. Poi aveva tentato, senza successo, l’esame da ricercatore in Letteratura italiana contemporanea. Per ben due volte era stato respinto. Ma lui si era gettato, ancor più determinato, nel terzo concorso. – Per l’ultima volta – si era detto. E così aveva calcato, finalmente non invano, i corridoi dell’Istituto e atteso, stranamente senza ansia, i risultati. Questa volta favorevoli. Allora esondò, senza rumore, la sua gioia. Da quel momento si stendeva, spianata, la sua strada. Era italianista a pieno titolo anche lui. Prese a frequentare la biblioteca e fu lì che Melanine conobbe i suoi progetti. Divennero amici. La loro amicizia non sorprendeva nessuno: avevano entrambi le stesse ambiziose debolezze.

Venne l’estate e il racconto di Melanine ebbe una tregua. Intanto, il manoscritto, lei lo stava pian piano battendo.


Quando Robert parla con me si calma e non appare confuso. Ne approfitto per indagare sulla sua famiglia, su quell’adolescenza insopportabile, sulla pressione sociale subita, da cui aveva imparato a difendersi in questo modo così personale. Abbandonato dal padre, sospinto dalla madre, era diventato ben presto un distimico ambizioso.

E le due cose, si sa, non stanno bene insieme. Ma in lui c’era in ballo un terzo elemento: l’onestà.

Spinto dall’ambizione, sin da giovane Robert ha sempre desiderato mutare la sua storia personale. Ha sempre voluto una svolta. E però, anche se il suo fine era ferreo, non è mai stato tale da giustificare ogni mezzo. Perché un’etica Robert ce l’ha sempre avuta. E ancora oggi aspira al mezzo migliore e più esplicito, trasparente. Altro che impostore!


Parla però ogni tanto anche di un certo Munal, che a quanto ho capito lo ha preceduto in quest’opera e il cui lavoro lui si sforza di migliorare, di completare. E come Munal, vuole più che altro essere considerato l’inventore di un metodo narrativo anziché un narratore. Il metodo che cerca è questo: leggere, appoggiarsi ad un altro, sia pure per opporvisi. E non ad un altro soltanto. A tanti altri. Come se avesse bisogno di tante alterità, in qualche modo insufficienti da sole, da osservare, da riscrivere, da migliorare. Si ha come l’impressione che non abbia integrato e sintetizzato le introiezioni, ma che le tenga lì, non elaborate, per identificarvisi singolarmente o complessivamente, a seconda dei casi. Come una serie di maschere nell’armadio.

Ma forse il mio giudizio è troppo severo. Ancora non capisco il mondo della composizione letteraria.

Robert non nega, e forse anche qui è diverso dai veri impostori, di desiderare ardentemente la fama e la gloria. Non è un bugiardo, lui; non ingannerà nessuno. Non sottoporrà a nessuno alcuna forma di plagio. Sarà tutto pulito,tutto alla luce del sole. E tuttavia, come i veri impostori, vuole vantaggi materiali. Anche se non necessariamente danaro.


– Come ha fatto Munal! – aggiunge.

Melanine amava raccontare tutto di Robert, per filo e per segno. E l’amico tipografo l’ascoltava volentieri: dopotutto Melanine era la persona meno noiosa che lui avesse attorno. Imparò così da lei che Robert aveva scoperto Munal proprio per caso.

– Robert dice che leggiamo dei libri da bambini e poi ce li scordiamo. – Che colpa ne abbiamo, allora, se scriviamo cose che c’erano anche là? Nel cercare le influenze ci si perde. C’è un’enciclopedia pervasiva sopra tutti noi. C’è l’enciclopedia della nebbie quella del labirinto. L’enciclopedia è l’indistinto.

Robert si chiedeva, allora, se Munal copiasse. «No!» si rispondeva. E lui? Lui avrebbe copiato? No, naturalmente. Nemmeno lui lo avrebbe fatto. Copiare è il verbo giusto solo se fai copie più brutte dell’originale. E lui aveva riscontrato – ecco la cosa mirabile! – che Munal faceva copie più belle. Era certo che anche Omero aveva fatto delle copie più belle.

Aveva un’arte per questo, Munal, e lui non avrebbe avuto pace finché non fosse riuscito a capire come facesse. Infine aveva capito. Il contributo originale di Munal consisteva in quest’arte, in questo miglioramento, non nel soggetto migliorato. Aveva un suo segreto che nessuno fino ad oggi conosceva. Il contributo di Munal alla letteratura stava in questo valore aggiunto. Scoprire il suo modo, raccontare questa scoperta e migliorare addirittura il metodo sarebbe stato il contributo di Robert. La sua novità.

La lampada s’accese un mattino che non era ancor sveglio del tutto: si era affacciata tra le stecche delle persiane una tecnica mirabile. Rendeva perfetto il suo racconto e assenti o ridicole le accuse di plagio. Anzi la tecnica sarebbe stata esplicita e ammirata.
Un caposcuola: sarebbe stata la fama e la ricchezza.

La hybris esplose in lui, incontenibile. Fino a portarlo in clinica.

In questa clinica, fra i tigli odorosi.

Devo dire che comincio piano piano ad entrare nel mondo della letteratura. Faccio tesoro degli insegnamenti di Robert.

Oggi lo considero, il mio con lui, un incontro fortunato. Da che sono qui,anzi, addirittura da quando lavoro, non avevo mai visto un caso simile. E mi rendo anche conto di quanto sia sottile il confine che può separare in Robert la perversione dal genio.


E quel babbeo del mio collega che non prende nemmeno in considerazione le sue motivazioni. È pazzo e basta, dice. E ha già deciso per gli psicofarmaci. Litio e AP. In tal caso prevedo una depressione spaventosa. Perché non vuole nemmeno vederli, i suoi lavori? O capire l’entità del suo intervento a partire dall’opera originale?

Insomma io ... ’sto Medici ... mi fa arruffare il pelo, e lo devo ormai affrontare.


O mi lascia gestire il caso a modo mio, o lo mando al diavolo ... e se lo porti avanti da solo! Certo mi dispiace per il paziente. Insomma vedremo. Intanto ho costretto il primario ad un colloquio con me. Domani mi riceve. Nella biblioteca al primo piano. Ci andrò con le mie prove. Anche se preferirei passeggiare nel parco.

Oggi ci sono i ciliegi in fiore.




Aprile.

Primo piano.

Camici bianchi. Loro due che parlano.

La disputa sulla diagnosi, timida e risoluta a un tempo, avviene nella biblioteca di Villa Adele; che tanto è di modeste dimensioni, quanto dotata di buon personale. Amorevole rifugio per le menti internate. Humana pietas aegris perfugium comparavit: parole scritte in modo stinto sul frontone fatiscente.

I disputanti sono uno psichiatra e uno psicologo. È un meraviglioso aprile, che fatica più del solito ad apparire il più crudele dei mesi.

Parlano di un paziente che sprizza felicità da tutti i pori. È ricoverato lì da tre giorni ormai, logorroico, eccitato. Farnetica, direbbe Pirandello. E lo psicologo, le presunte farneticazioni, nei giorni precedenti le ha registrate.

– Ascolti, ascolti cosa mi ha detto.

«Fingere che un libro esista già. Ecco il segreto di Borges. In realtà quel libro non c’è, non esiste. È davvero opera tua, quel libro che nessuno vedrà mai, che nessuno ha mai scritto ed è tutto nella tua testa. Il libro è tuo, ma tu non lo scriveresti mai perché è tanto brutto che la colpa preferisci che se la prenda un altro, un autore che non esiste. E tu ne fai la critica, lo riassumi, lo commenti, lo stronchi. Fortissimo.
Fingi di commentare una (tua) opera mediocre e ti vanti di averne scoperto i plagi e, soprattutto, intanto la racconti. Che è proprio quello che ti stava a cuore. È formidabile. Borges! Ecco la soluzione! Basta inventare qualcosa di simile. Parli della tua mancanza d’ispirazione, e l’ispirazione è propria questa».


Il primario non dice nulla. Ma si vede che frena l’impazienza e la noia. Così lo psicologo insiste: – Insomma che gliene pare? – dice.

– Perché, ci sono dubbi? – reagisce il primario. – Non le sembra un antisociale? Ingannare così il lettore! Fermo restando il fatto che è anche maniacale. Tutto questo fiume di parole insensate!

– Mah! Ho controllato le sue affermazioni conversando con un addetto ai lavori, un critico, e questo si è incuriosito. Mi ha chiesto se ha già prodotto qualcosa, e se sì, ha detto che gli piacerebbe vederlo. E che le cose, circa la composizione, l’intertestualità, stanno proprio così come dice Robert.

– Oh! Sta’ a vedere che adesso i letterati vengono a insegnarmi il mio mestiere. Non ho bisogno di sapere quel che dicono i critici o gli insegnanti di scrittura. Il delirio è delirio e io so ancora riconoscerlo.

– E se non lo fosse?


A Robert, in clinica, gli fa visita solo lei.

Una donna. Bruttina.

– Mi chiami pure Melanine, dottore – mi dice.

– Va bene, Melanine, può dirmi qualcosa di lui?

– Sì, qualcosa, ma non tanto. So che sta scrivendo un libro. Ma lei Dottore, di lui, cosa mi dice? Come sta, Dottore?

– Non sono preoccupato – le faccio – non credo che sia uno psicotico, o comunque non è certo grave come appare e come crede il primario. Mi sembra al massimo un disturbo istrionico, il suo. O forse no ... ma del resto lei mi può aiutare forse. Per esempio, è al corrente di eventi recenti che possano dirci cosa cercava?

– Ecco – dice lei – cosa cercasse ce lo può chiarire bene un antefatto, di
qualche mese fa.


Sei mesi prima.

Al Caffè Orientale.

Pochi tavoli in piazza.

Fine d’ottobre. Bruma e tempo di castagne.

Robert e Melanine.

– Devo trovare una buona storia per un remake o una «borghesiana». Manca poco alla consegna del mio racconto all’editore e ancora non so che pesci prendere.

Beh! Cosa gli si poteva rispondere, a uno che di «copiare» lo ammetteva con semplicità ormai, con innocenza quasi?
E Melanine parlava ancora di copiare perché ancora credeva che si trattasse di questo; lei li conosceva, sì, i termini ri-creazione, o remake o cover, ma li considerava una presa in giro. Mancanza d’ispirazione bella e buona: ecco che cos’erano. Sapeva che lui soffriva, che le cose non gli davano nulla più che la loro superficie, che non gli aprivano la loro buccia, che lui le guardava inutilmente. Che Robert sentiva una smania, un dolore: e pensava che la vita stava passando invano. E che giorno dopo giorno l’insuccesso perdurante accresceva il conto del tempo perduto.

Fuori l’aria era cenere, e cenere erano le strade e i muri, e i brandelli di cielo. E l’animo di Robert. Perché tutto: aria, strade, muri, trattenevano l’anima nei loro gusci chiusi.

Lei lo aveva guardato ancora una volta di sottecchi. A Melanine ... lui sarebbe anche piaciuto ... se solo avesse avuto un briciolo di talento in più. Il talento di quello d’una volta: lei era un po’ all’antica, ferma all’illusione delle storie originali. E magari anche senza talento, se lo sarebbe preso. Ma lei, Melanine, non era carina; era solo intelligente. Questo lo sapeva e vedeva bene che lui non la voleva. Per descriverlo diceva alle sue amiche: – Avete presente Richard Gere in Mr. Jones? Ecco! Quello lì. Un po’ anche come carattere: ambizioso, gasato e triste insieme.

Robert non aveva pensieri che per il suo lavoro.

Non era affatto un plagio il suo, perché lui, i suoi prelievi, mica li nascondeva. La sua riscrittura dichiarata aveva intenti artistici elevati e manifesti. C’erano stati autori importanti che l’avevano praticata. Così le diceva con pazienza:

– Ci sono storie che saranno riscritte per sempre, storie inesauribili, di cui nessuno può vantare l’originale. Prima del primo scritto c’è la tradizione orale, e prima di quella c’è l’archetipo che parla in noi. Esse vengono continuamente ripetute, ma sono i tempi diversi, il nuovo pubblico che le ascolta, il nuovo tono della voce narrante che, pur nell’uguaglianza della parole, fanno la differenza. È tuttavia una tecnica, quella della “ri-creazione”, che, pur ampiamente usata, oggi non è ancora perfetta. È a quella che vorrei dare veste nuova.

Melanine se lo ricordava bene: Robert in passato aveva sofferto molto per la sua mancanza d’ispirazione. Ricordava quando tristemente contemplava il suo testo, fatto e rifatto interminate volte, parole e più e più disamorate a ogni voltar di foglio o ritornar di riga, e sempre più addentro, dove la parola succede alla parola, il suono al suono.

Ma infine, secondo lui, l’idea era arrivata. Non era il tipo d’ispirazione che intendeva Melanine, quella che aveva raggiunto, ma era pur sempre ispirazione. Si trattava solo di perfezionarla.

Altri copiavano dalla vita; lui e quelli come lui, copiavano dalla carta. Aveva cominciato a cercare le fonti, le storie, i casi, “sulle carte ingiallite”, negli archivi, nelle biblioteche, anziché, come fanno altri, nella strada, o nei comandi di polizia, o nei caffè, o negli stadi. Ma anche in questo severo laboratorio “ri-creatore” aveva provato nei primi anni il tormento della pagina bianca.
Scoprì che non era semplice copiare dalla carta. E i primi scritti abortiti li aveva tenuti per sé. Anche la carta, come prima le cose, tratteneva per ora il suo contenuto. Però, finché non pubblicava, nessuno lo veniva a sapere che a lui mancava lo sguardo, che le pa- gine a lui non mostravano la loro claritas.

Ad ostacolarlo da principio era stato il dubbio che il nuovo modo non sarebbe stato accettato dai critici. Certo sapeva che era concesso farlo, a certe condizioni, e che anzi molti lo facevano, e lo confessavano, e talvolta erano pure apprezzati. Ma erano una minoranza.

Poi si era imbattuto in confessioni illustri, in illustri solidarietà: Cecov, Carver, Eliot. Anche loro lo avevano fatto e lo avevano confessato. Allora l’ispirazione fu libera di arrivare e di manifestarsi.

– Vorrei scrivere di un metodo e con un metodo ... un metodo che mi ricorda un po’ Munal.

Melanine non aveva mai sentito parlare di Munal. E sì che era una bibliotecaria attenta. Chi era Munal? Glielo chiese. Era uno scrittore, fu la risposta, che aveva elaborato un modo geniale per utilizzare le influenze di altri autori. Per Munal era impossibile cancellare le influenze dei maggiori, dei vicini, della tradizione,
dello spirito del tempo. Si trattava piuttosto di dar loro la propria cifra, di migliorarli. Di prendere a prestito e poi restituire. Si trattava solo di una provvisoria, transitoria adozione. Il maestro, la fonte infine sparivano, non ci restava più nulla di loro. Dapprima si faceva strada il loro opposto, il contrario. Poi spariva anche il contrario. E i ripensamenti erano tanti che non restava più nulla della fonte; tutto era nuovo.

– Ma questo Munal esiste veramente o tu fingi soltanto di copiare da lui? E da chi finge di copiare Munal?

La risposta di Robert era troppo vaga per non insospettirla.

– Munal – diceva - aveva come un profumo particolare che metteva nel copiare le parole, e i punti e le virgole. Il segreto consisteva nel contesto diverso in cui cadevano le medesime parole.

Robert voleva imparare il metodo Munal per fare, come lui, una copia superiore all’originale.

– A volte ci sono certi giochi del destino – continuava – per cui ti capita che due cose uguali, in posti diversi, o in tempi diversi, ti appaiano tanto dissimili, che neanche le riconosci.

Era compiaciuto. A tratti sorrideva spavaldo, maniacale quasi, con dei bagliori di sprezzo divino che lo traversavano. Le morbide ciocche gli sussultavano sulla fronte, che scuoteva nella sua eccitazione, ma ritornavano da sole al posto loro, a ricomporre l’armonia del bel Narciso.

Oggi con Medici ho fatto un estremo tentativo. Dargli dei farmaci è un vero delitto.

– La prego, aspettiamo con i farmaci – gli ho detto – mi dia almeno una settimana ... per capire. Un uomo, lo definisca narcisista fin che vuole ... un uomo giunto all’alba di una scoperta dopo tanta ricerca, se lei gli sega la memoria e con essa il piacere e il vanto della sua creazione ... insomma, quello si butta dalla finestra. Specie se ha preso il litio.

Lei dimentica che la responsabilità è mia. Solo mia. Nessuna settimana. Anzi, abbiamo cominciato con il Rivotril ieri sera. E anche lo Ziprexa.

– Oh, Cristo!


Melanine lo aveva cercato sulle enciclopedie più aggiornate.

Aveva cercato «Munal», «Munahl», «Muhnal», «Mhunal», «Munhal». Niente da fare. Quel nome Robert se l’era inventato. Idea formidabile! Ormai ne era convinta anche lei. Bravo Robert! Dichiarare di non saper scrivere e di copiare di sana pianta da uno
scrittore inventato e invece lo scrittore da cui hai copiato c’è e sei proprio tu. Cribbio, che idea! La finzione di essere disonesto che diventa la punta più alta di onestà.

Ma non aveva detto nulla, a nessuno, Melanine. Lei era ricettiva e avara: inglobava e tratteneva. Si era chiusa nella sua idea provvisoria, che magari non era vera, ma sicuramente geniale. Nemmeno si era accorta che in lei stava nascendo il progetto di copiare a sua volta l’amico. Quando Robert le aveva dato il manoscritto in lettura non gli aveva chiesto nulla: glielo desse pure se voleva, l’avrebbe letto volentieri.

Voleva studiarlo a fondo, ma poi lui era morto e ...

La decisione del primario mi ha costernato. Sono andato di volata in corsia e ho trovato Robert che non aveva neanche la forza di parlare.

– Non si perda d’animo! Li sospenderemo, i farmaci – gli ho detto.

– Non mi hanno creduto, non mi hanno creduto. Mi uccideranno e ruberanno il mio lavoro.

Poteva ancora parlare, ma le mani e le gambe restavano inerti.

Che potevo fare? Sono tornato nella mia stanzetta sbattendo le porte e senza salutare chi incontravo. Furioso sui tasti ho battuto una cartella clinica lunga, approfondita, arrabbiata. Col «sopracciglio dell’ira» che non si spianava. La manderò in copia anche alla direzione sanitaria.



Il caso Robert Sterne

Consideriamo il caso di R. S. a partire dall’infanzia, ossia da quando la madre gli diceva: – gliela faremo vedere noi al mondo (e a tuo padre, che ci ha lasciati soli, il buono a nulla) –. Era stato certo anche da questo che Robert deve aver inferito d’essere naturalmente dotato e di non doversi rassegnare a un destino comune. Pensò certamente che a lui non occorreva sforzo per essere il migliore. Cominciò forse ad avere su di sé fantasie positive, ottimiste, inossidabili. Qualunque piccola conquista, anche illusoria e risibile, gli faceva metter su cresta. Il padre li aveva lasciati soli quasi subito. Viveva lontano, nei suoi luoghi, le sue montagne, più adatti a lui che non quelli dove cresceva il bambino e dove abitava sua moglie. Il bimbo dunque era tutto della madre. Che di solito biasimava il padre apertamente, per la sua viltà ad affrontare un mondo più vasto. Nel contempo esibiva il figlio in società con enfasi mal celata. Nel piccolo si formava intanto un parallelo a suo favore: padre debole e deludente, figlio capace e destinato a grandi cose. L’Edipo vittorioso ha così sconfitto il padre e si è preso la madre. E alla madre si sente vicino, tutt’uno con lei e le sue ambizioni. Il narcisismo infantile s’inflaziona. Si accresce in lui un io ideale, quello voluto dalla madre. Non si rende nemmeno più conto, Robert, delle sue minute dimensioni, del suo peso, della sua forza fisica risibile. Si sente, si comporta, come una persona più alta, più forte, più pesante. Comincia ad imitare, a muoversi come se fosse più di quel che è, “come se avesse un pene più grande”. Crescendo ha però bisogno di qualcuno che sostituisca la madre nell’applaudirlo. Deve cercarsi un pubblico altro che gli creda. Così, per verifica. Farà il giornalista, anzi, di più: lo scrittore.
Tuttavia una cosa non quadra. Per i tre anni delle medie e i cinque del liceo rimedia sempre cinque in italiano scritto. L’unica volta che copia un tema se n’accorgono. La copiatura viene valutata con severità, e lui è svergognato davanti a tutti. Questo contrasta duramente con l’obbligo d’essere il migliore e di brillare di fronte ai compagni. Reazione: doveva assolutamente capire. Se non era libero di lasciar fluire nella pagina una vita concreta e vissuta, avrebbe fatto fluire ciò che aveva in abbondanza: una sorta di fantasia combinatoria, logico-matematica. Un dato era certo: la sua pagina doveva essere meravigliosa. Del resto, bravissimo in materie scientifiche, voleva per forza riuscire anche in lettere. Forse doveva già covare in lui l’idea che si poteva scrivere con un modo matematico, combinatorio; si faceva strada l’idea di una struttura narrativa che affondava le radici in una mente estremamente complessa. In fondo era la composizione, l’apposizione, la combinazione di dense parole a fare una sintassi gravida e irrisolvibile.
Cominciò a pensare sempre più spesso a quelle equazioni che generano i frattali. Mano a mano che l’idea comincia a prender forma cerca il modo di produrre scritti di effettivo e autentico valore. Perché lui, dopo quel tema copiato, non vuole più ingannare; non vuole più quella gogna; vuole costruire una copia perfetta in
cui l’originale è dichiarato e irriconoscibile. E rivelarne, nella copia stessa, tutto il meccanismo compositivo.


Stando così le cose come potevo scrivere che Robert è un impostore?

Ma mi gira un po’ la testa, a questo punto. Improvvisamente mi viene in mente un’altra cosa. Anche nella comunità degli psicologi succede in questi giorni qualcosa del genere. Anche lì si dice «impostore» prima ancora di guardare, di sapere. Senza distinguere. Si ragiona per categorie. Impostore è diventato sinonimo di non medico, di non psicologo. Non l’ho forse fatto anch’io in tante discussioni fra psicologi ... l’uno contro l’altro armati fino ai denti. Anch’io figlio della tempesta, angelo sterminatore. Date le spade agli psicologi e scorrerà il sangue. E ora arriva questo Robert a risvegliarmi dal mio sonno dogmatico.

Rinfrancato, con le idee un po’ più chiare, ho proseguito la mia relazione ormai completamente determinato.

Ho scritto nel mio referto che Robert lo aveva trovato, infine, il suo modo e lo avrebbe applicato con facilità ogni volta che avesse voluto, e che ciò lo aveva reso euforico, come se «il treno avesse fischiato».

La biblioteche sono piene di materiale da usare. Il futuro si apre davanti a lui. Gli s’è presentata, improvvisa, una tecnica mirabile. Purtroppo la sua gioia è esplosa ... un po’ troppo, innocente ma incontenibile. Sarebbe stata cosa innocua e breve, se indisturbata. Ma è stata vista. Guai ad esser visti a questo mondo! Una sera lo hanno trovato solo che camminava tranquillo sul parapetto di un ponte; un parapetto largo poco più delle sue suole. Guardava in alto e sorrideva. Sereno. E hanno chiamato chi di dovere. Non sapevano, loro, che lui non soffriva di vertigini e quella cosa l’aveva sempre fatta, quando era allegro o voleva far vedere la sua abilità ai compagni. Quando sono arrivati gli infermieri camminava ancora sul parapetto. Non ha opposto nemmeno resistenza. Era felice. E non la smetteva più di parlare e di comunicare la sua felicità, anche in ambulanza. Robert lo aveva detto anche a Medici: stava bene, lui, perché la Clinica? E aveva continuato a dirlo a tutti, i giorni dopo. Ogni volta che aveva visite non avrebbe smesso mai di parlare e di comunicare, eccitato e raggiante, la sua felicità. Stava bene, lui: perché la Clinica? Aveva scoperto un tesoro; perché la gente non riusciva a vederne gli svi-
luppi?


Ma quando l’incomprensione del primario aveva cominciato a prolungarne la degenza e lui a non vederne più la fine, la cosa aveva cambiato aspetto e l’agitazione aveva cominciato a prenderlo. Anzi, la paura.

Sono un po’ agitato anch’io, mentre lo dico a Medici.


– In definitiva per me si tratta solo di disturbo istrionico o di disturbo narcisista. Può curarlo benissimo a casa.

– Ma dai, è un impostore con accessi maniacali. Lo teniamo un po’ qui e lo salassiamo a dovere. Poi a casa vedrà che glielo manderemo.

– Ma insomma! Basterebbe che lei perdesse un po’ di tempo a capire il suo metodo. Sul serio. La tecnica da lui scoperta, per quel poco che capisco, è davvero geniale. Ci mette molto del suo. Davvero. Non è un impostore.

– No, no, mi creda; è ... un impostore. E anche maniacale.

Come salvarlo da Medici? Mi sento impotente.


La cartella clinica si apre ancora avanti a me per essere completata. Ormai voglio attenermi solo al caso e scordare ogni teoria psicologica. Qui ci vorrebbe piuttosto un critico letterario, non uno psicologo, per dimostrare la correttezza e validità del suo ragionamento, del suo esame di realtà. Il suo è o non è un progetto compositivo possibile? Occorrerebbe un arbitro imparziale per rispondere, perché quelle che stanno l’una di fronte all’altra sono due visioni letterarie, non sanità e follia. Come accade in questi giorni fra psicologia e filosofia. Comincio a capire. L’analogia, la similitudine mi aiutano in questo processo verso la luce. Fra psicologi e counsellor filosofici occorre solo chiarezza e concordia nel fissare una chiara linea di demarcazione fra due progetti molto diversi, fra due domande molto diverse. Occorre un arbitro imparziale che tracci un sereno confine. Un confine non viziato da paure economiche.

Lo ho ascoltato ancora e a lungo. Complice un’infermiera che ha consentito di dargli le pillole solo dopo i miei colloqui. E quello ha continuato a parlare di narrativa, di metanarrativa, di metodi di scrittura.

Mi rendo conto che cerca d’istruirmi. Mi considera ancora troppo lontano dalla materia per poter capire pienamente, ma ha un bisogno estremo che io capisca almeno un po’. Come se percepisse oscuramente che ne va ormai della sua vita. A dir la verità comincio a credere che abbia ragione.

– Le storie sono in tutto quattro o cinque – ripete con ansiosa pazienza. –
Sono nell’aria, le sai anche se non le hai mai lette. Impossibile non subire influenze se vivi in società. Meglio allora conoscere le opere dei tanti che le hanno raccontate e usarle in modo consapevole e geniale. Tanto li subisci comunque ... il Weltgeist, l’intertestualità, l’enciclopedia vivente. Ci vivi dentro.


– Sì, ma il suo caso specifico? – gli faccio.

– Il mio caso specifico? Ecco – risponde Robert – io sogno parole senza cose. Parole che rappresentano parole. Che prendono nuova vita, ogni volta che nasce uno scrittore nuovo. Ma ancora conservando il loro enigma, ancora senza schiudere significati.


<Si accorge della mia attenzione. E prosegue con maggior fervore.

– Sì. La Parola vuole restare significante, interminata gestante di un significato mai nato. Ora qui mi si giudica senza capire; si compilano cartelle cliniche che alludono a significati sicuri quanto discutibili, perentori quanto incerti. Lo psicologo che scrive il referto, riempie la pagina di parole. E le usa come se le possedesse. Ma davvero lo psicologo possiede la parola? Davvero la conosce? Ne ha forse aperta qualcuna, di parola, per conoscere quale insondabile tesoro racchiuda? Perché non lascia che le parole conservino il loro mistero? Allo psicologo resterebbe allora il desiderio buono e sempre vivo per quel significato mai nato. Resterebbe avvolto da ondate potenti, vaghe e molteplici. Ondate inafferrabili e arricchenti insieme. Perché non si esaurisce la sorgente solo intuita.

Da questo colloquio il mio narcisismo ne sta uscendo a pezzi. Dovrò ripensare il mio mestiere? Possiedo io le parole?


Ricordo la presuntuosa e ignara affermazione di un collega: noi psicologi possediamo la parola, usiamola. Ora il paziente mi mette davanti alla nostra ingenuità.


Ritorno con fatica a Robert. Ripercorro il suo racconto, le sedute precedenti.

Aveva letto “La regina Loana” ed era andato in soffitta anche lui, fra i bauli polverosi. S’era imbattuto in Borges. “Finzioni”.


Lampadina! Borges fingeva.

Aveva finito per stordirsi? O gli era stato chiaro tutto e lo stordito sono solo io?


Man mano che aveva proceduto a raccontare, ci avevo capito sempre più e sempre meno a un tempo. E anche ... accidenti, avevo pensato ... se imparano a fare così, come Munal, i falsi psicologi, i counsellors, maghi e compagnia bella, e diventano più bravi degli psicologi veri? E magari più umani e meno aggressivi? Non è che accadrà allora che la gente penserà che chi abusa del titolo opera meglio di chi il titolo ce l’ha o anche semplicemente è più simpatico, più accessibile, più caldo? Perché allora nascerebbe davvero un gran dubbio su ogni cosa, sulle cose più sacre. Già girano un sacco di film in cui si vedono all’opera turisti “per caso” o commercialisti o altro ancora ... più bravi degli psicanalisti, come direbbe Montale, «laureati».

La citazione che non conoscevo era stata di Robert, naturalmente. Ero andato allora a prenderlo in mano, il Montale, e lo avevo letto:


Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla


e ricordo che avevo chiuso gli occhi e vedevo Montale andare lungo i fossi, e
i counsellor non laureati con lui. E mi prendeva l’angoscia: il ragionier Montale è certo più grande dei poeti laureati del suo tempo, avevo dovuto ammettere con apprensione.


Io, si sa, i counsellor non li voglio neanche all’uscio, ma Robert mi aveva fatto capire che non vi sono assoluti ... e lui mi sembra un tipo in gamba, uno che si documenta. Bah! Cosa potevo mai fare o dire con tale confusione in testa? Eppure dovevo!

Perché per giunta, pur nell’incertezza totale, dovevo comunque posare Montale e stilare una diagnosi. La cartella clinica non l’avevo ancora terminata.

Così ieri decisi che avrei concluso con un’arringa difensiva. Lo volevo assolutamente salvare dalle grinfie del Potere, dai diploma di laurea appesi al muro, dai farmaci. E cominciai dunque a scrivere.

Ma purtroppo non ero il solo a farlo. Né il più potente e ascoltato.



Quello che Robert lesse lo stupì. Dolorosamente.

Preferiremmo dire che lo fece trasecolare, ma non sarebbe esatto; ormai era troppo stanco. E non aveva più energia per sentimenti furiosi. Questa, per lui, era davvero la botta finale. La sua vita riscritta a quel modo! La cartella clinica era firmata dal dottor Medici, primario. Sorvoliamo su come Robert se l’era procurata; ci basti sapere che ce l’aveva lì davanti. Le parole che stropicciava fra le mani sudate erano impietose; si pretendeva d’averlo smascherato.

Ma sarà meglio dire cosa c’era scritto.

Si parlava di psicosi maniaco-depressiva con impulsi autoaggressivi, di farmaci per lunghi periodi, e anche di un impostore incallito. Si raccomandava stretta sorveglianza.

Probabile, infatti, il suicidio.


Il suo suicidio non era affatto probabile. È stata la cartella clinica a provocarlo.

Comunque dopo la sua morte, Melanine ha come dire “ereditato” le carte che erano nei suoi cassetti, il suo piccolo “laboratorio di scrittura”. Non c’era stata per lei nessuna difficoltà ad averlo: nessuno si era mostrato interessato.
Piccoli racconti di prova, esercitazioni più che altro, che poi ha passato anche a me. Pare che siamo solo noi due a provare qualche interesse per lui. Dunque li ho letti, quegli appunti.

Accidenti! O sono plagi completi, o era bravo davvero
.

La mia crisi definiva è cominciata lì, con quei quaderni. Dal momento che volevo assolutamente capire e, visto che c’ero, farmi una cultura, appena avuto il materiale mi sono preso un lungo periodo di ferie, insomma tutte quelle che mi spettavano, e mi sono messo a studiare. Come prima cosa ho cercato di pulire la mia mente da ogni concetto, o termine, o parola che la psicologia mi aveva imposto. La Psicologia oggettivante mi risultava opprimente quasi da sempre, e da un po’ mi soffocava addirittura. E sempre più mi chiedevo: dopo tutto quel che è accaduto, anche dentro di me, posso ancora continuare a fare questo mestiere? Un mestiere di cui fanno parte anche i “rattomani”, come lo psicologo fidanzato della Meg Ryan in “Genio per amore”? Perché lo zio Albert preferiva il meccanico?

Questo volevo capire. Se potevo continuare a fare il mio mestiere.

Così in questo periodo di ferie, ormai finito purtroppo, ho frequentato solo la letteratura. Ho cercato cose che potessero darmi un’idea delle fonti di Robert. Ho letto quasi giorno e notte. Non ho cercato Munal, che, ormai l’avevo capito anch’io, non è mai esistito. Ma qualcosa ho trovato, che faceva al caso mio, alcuni racconti, e mi sono lasciato andare, naïf, allo loro analisi critica. Volevo scavare in questo mondo, scavare fino ad avere un’idea precisa. Ma qualcosa ho già, in nuce, nella mente: l’impostura esiste solo nella bassa qualità.


Non si può condannare Robert.

Non si può condannare Robert senza condannare anche me. Anche il lettore plagia e io sono diventato un lettore accanito. Compro ogni tipo di libro sulla scrittura.


Credo di aver imparato tante cose: che un libro è un insieme di simboli morti: le parole. Ma ecco che quando arriva il buon lettore, le parole tornano in vita. Risorgono. Il lettore è uno scrittore straordinario che non lascia traccia di sé. Non ha cambiato una sola parola del libro che ha riscritto.

Mio Dio, quante volte in vita mia ho riscritto l’ermo colle?

Adesso so tante più cose che potrei buttare in faccia al mio ex primario, ora in pensione. In una delle mie letture, ho incontrato queste parole:



Io scrivo per imitazione, e tutta la mia scrittura è un’imitazione. E come insegnante insegno ad adoperare gli esempi e a imitare ... Io cominciai la mia carriera scrivendo una lettera-racconto che ebbe fortuna: il punto è che quel racconto era un’imitazione ... pochi giorni prima ... avevo letto alcuni saggi letterari di T. S. Eliot ... e nel mio racconto provai a fare delle frasi a imitazione di quelle di Eliot ... Alla fine, dentro quella lettera-racconto c’era una quindicina di frasi che io ho preso da questi saggi di Eliot, senza modificarle o modificandole minimamente ...
Il fatto è che io rinuncio qui e ora a qualunque pretesa di originalità. Se ho creduto di fare qualcosa di originale, finora, è stato sicuramente per ignoranza: ho rifatto qualcosa che c’era già, senza conoscerlo ... quel “qualcosa” era dentro la tradizione che mi porta, dentro la cultura che mi contiene. L’imitazione è un atteggiamento morale: non m’interesso tanto di me stesso, quanto della mia posizione nel mondo. Non importa tanto che io stia parlando, quanto che qualcuno sta parlando da questa posizione: qualcuno, che solo per caso sono io, sta parlando da una posizione identificabile dentro la storia e la geografia della letteratura. Imitazione è accettare di essere del proprio tempo e del proprio luogo, e quindi di far precipitare nella propria scrittura ciò che appartiene a questa posizione, a questo tempo e a questo luogo. Imitazione è accettare una finitezza, accettare di stare dentro una tradizione e un contesto, è svalutare se stessi rispetto alla tradizione e al contesto. È rinunciare parzialmente a se stessi per amore ... per amore delle persone che leggono ... facendo nel contempo vedere come pressoché tutto ciò che si agita dentro di me, in realtà provenga da fuori.

Purtroppo il povero Robert non ha mai pubblicato niente di suo. Non ha fatto in tempo. Mi aveva detto di avere un romanzo. Ma dove sia finito non si sa. Magari ne sa qualcosa Melanine. Ma ormai io non la vedrò più; Robert è morto e non abbiamo più motivo d’incontrarci.

Oggi ho pietà del mio primario, in pensione da mesi.


Pover’uomo, non poteva capire. Come non capivo io, all’inizio. Per questo forse a me la pietà non costa nulla. «Non vi si abbeverano anche i porcospini»? Forse il vecchio Medici voleva «trattenere le campane d’argento sopra il borgo e il suono rauco delle colombe», o fermare la vaporiera del nuovo mondo, lui che nemmeno si era nutrito del vecchio.

Perché vedi, caro Medici, questo oggi ho concluso: che nutrirsi di belle cose e replicarle ad arte non è plagio. Magari è impostura proprio la tua povertà di spirito, e non l’assenza di titoli. Hai lavorato molto, Medici: ma esperienza, zero! Perché non ascoltavi, non eri curioso. Forse tu, vecchio descrittivo, nemmeno avevi sentito parlare dei tuoi colleghi che pensano in termini di fenomenologia, di esistenzialismo. Forse credevi che ad avvicinarsi alla verità non fosse il pensiero correttamente usato, ma fossero le leggi degli uomini. Che a validare le teorie fosse il tuo pezzo di carta, che secondo te santifica e rende vero ipso facto il tuo pensiero ... pensiero che non ha altra validazione se non la pergamena appesa al muro.

E poi volevi fare il supervisore. A me. E a me ... dire che sbagliavo. Che ne sai tu della mia anima? Dei miei legami con Robert? Tu, che i legami non li sai nemmeno avere! E non dirmi che non accetto la supervisione. L’accetto. Ma non da te. L’accetto da chi mi ama, mi capisce, mi conosce e mi rispetta.

Mi dirai che non sei il solo a comportarsi così. È vero: non sei il solo. Te lo
riconosco, ahimè. È vero che altri fanno anche peggio. Che nei congressi o nei dibattiti, nelle mailing list o nelle riviste, molti si presentano volontari, ansiosi
di far parte del plotone d’esecuzione, e non ti concedono neanche la benda sugli occhi. È vero che non sei solo, ma questo non ti giustifica. Robert è morto,
perdìo! Morto. Morto perché non lo hai capito. Perché non l’hai ascoltato.

Non l’hai ascoltato, Medici!


E così non sei mai arrivato (peggio per te!) a capire che una malattia può sembrare un’altra, e a volte ne ricalca un’altra. Che non sempre le cose sono come sembrano. Si travestono, si nascondono, non vogliono essere scoperte. Talora lo fanno per darti il meglio. Come il buon plagiatore. Come tanti che ci sono colleghi senza esserlo e portano avanti il mondo insieme a noi. Come tanti che colleghi lo sono a pieno titolo, ma di cui nulla sappiamo e mai sapremo nulla.

Possiamo chiamarli “i silenziosi”?


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