20081224

Il quarto uomo "vien" da sé. O no?

Per la vigilia di questo natale scelgo di scrivere brevemente qualcosa riguardo ai difficili rapporti tra uomo e donna.

Ho sempre detto a tutti i miei amici maschi che mi ritengo molto fortunata a far parte del genere femminile e, con sincerità, ho esposto che il motivo principale sono le troppe difficoltà esistenti nel comprendere stati d'animo, paranoie e manie femminili.

Il comico Brignano fa una divertente parodia di "sfogo femminile" in cui mi ritrovo solo in parte e certamente non sotto quel tipo di profilo economico perché lavorando riesco a soddisfare i miei bisogni in piena autonomia.

Ritengo anzi fondamentale, per una donna che rispetta se stessa e che tiene alla sua indipendenza, riuscire ad amministrare le finanze in proprio, senza pesare sul reddito del compagno (non sarebbe giusto) ed evitando anche eventuali accuse di "sfruttamento" (non stimo gli opportunisti e sarei troppo orgogliosa per farlo).

Con l'esperienza le donne imparano che l'atto del "parlare con un uomo" non solo è perfettamente inutile ma addirittura stancante e fastidioso.

Il mio motto allora è: lamentarsi sempre e comunque, rompere le palle fino all'impossibile, rendergli la vita un inferno se necessario, ma senza aprire bocca: azione no bla-bla.

Per ottenere qualcosa dal proprio partner ci sono sistemi "casuali" e "indolore" che una donna deve assolutamente conoscere e che fanno leva su alcune delle caratteristiche standard del genere maschile: infallibili.





I problemi maggiori, almeno secondo la mia esperienza, si presentano con una forte difficoltà di comunicazione quando ci si trova a dover scindere l'amicizia dal sesso.

Eppure ho sempre creduto che fosse uno dei concetti più semplici (e tradizionali) da capire...

Invece, nel corso delle mie esigue avventure, mi sono sentita dare da uomini "di mondo" delle risposte così ingenue e disarmanti da lasciarmi esterrefatta.

Quella che si chiama "amicizia di letto" ho sempre pensato non facesse per me, preferisco infatti o un amico o qualcuno con cui fare sesso senza complicazioni, poche chiacchere e nessuna confidenza.

Difficile anche che ripeta l'"operazione" con il solito albatros o pellicano che sia anche in caso di alto tasso di soddisfazione erotica.
A questo proposito devo riconoscere che la sincerità (in certi casi) non è proprio possibile soprattutto per non ferire chi dice di essersi "impegnato" al massimo delle possibilità.

Certo è che con la maturità crescono le aspettative e ci si aspetta una certa "competenza" in materia.


Possibile allora che debba sentirmi in colpa se non ho nessuna difficoltà a non farmi coinvolgere troppo da quello che fin dall'inizio catalogo come rapporto di una (sola e unica) notte?

Possibile che debba sentirmi diversa se dopo averlo fatto non mi passa per la testa un fidanzamento o un matrimonio?

Possibile che debba sentirmi una stronza se ho (di natura) un approccio "maschile" rispetto al sesso?

Assolutamente no.

Ovvio che se ci sono dei sentimenti il discorso cambia.

Concludo scrivendo che trovo totalmente ingiusto che 3 uomini della mia vita mi abbiano tolto la parola (solo) perché abbandonati... si rendessero conto della fortuna che hanno avuto!

:)



20081219

Peccati immortali



Ho assaggiato per la prima volta del cioccolato al peperoncino di ottima qualità e ne sono rimasta entusiasta, completamente inebriata da un gusto che non saprei definire ma che mi ha suscitato una vera e propria estasi...

Non avrei mai pensato.

L'"orgasmo" culinar-natalizio della Signora G.





20081217

(NO) Blood Revolution

Tratto da Disobbedienza Civile - Henry Thoreau

Per sei anni non ho pagato la poll-tax. Per questo sono stato incarcerato per una notte e mentre me ne stavo lì, a osservare quei muri di pietra massiccia spessi due o tre piedi, la porta di legno e di ferro dello spessore di un piede e l'inferriata dalla quale filtrava la luce, non potei fare a meno di riflettere sull'assurdità di quella istituzione che mi trattava come se fossi stato semplice carne, sangue e ossa, da mettere sotto chiave.

Mi colpiva che, alla fine, avesse dedotto che questo era il migliore uso che poteva fare di me, e che non avesse mai pensato di avvalersi in qualche altro modo dei miei servigi. Capii che se c'era un muro di pietra fra me e i miei concittadini ce n'era uno ancora più difficile da scalare o sfondare, prima che potessero arrivare a essere liberi come lo ero io.

Neppure per un momento mi sentii imprigionato, e quei muri mi sembravano solo un grande spreco di pietra e di malta. Mi sentivo come se solo io, fra tutti i miei concittadini, avessi pagato la mia tassa. E loro, naturalmente, non sapevano come trattarmi e si comportavano da ignoranti.

In ogni minaccia e in ogni cortesia c'era grossolanità, poiché credevano che il mio più grande desiderio fosse quello di trovarmi dall'altra parte del muro di pietra. Non potevo fare a meno di sorridere notando con quanta cura essi chiudevano a chiave le porte che imprigionavano i miei pensieri, che tuttavia li seguivano anche fuori, senza alcun vincolo o impedimento, e che in realtà rappresentavano l'unico pericolo.

Dato che non potevano raggiungere me, avevano deciso di punire il mio corpo; proprio come i ragazzini, che se non possono arrivare a qualcuno per il quale portano rancore finiscono per maltrattarne il cane.

Capii che lo Stato era stupido, timoroso come una zitella in mezzo all'argenteria, incapace di distinguere gli amici dai nemici: persi tutto il rispetto che mi era rimasto nei suoi confronti, e lo compatii.

20081214

Pasticci(ni)

Tratto da: Alice nel paese delle meraviglie - Lewis Carrol


Quando Alice e il Grifone arrivarono, il Re e la Regina di Cuori erano seduti sul trono e una gran folla era raccolta intorno a loro: uccellini di ogni specie e altre bestie, insieme a tutto il mazzo di carte. Il Fante era in piedi davanti ai sovrani, incatenato, e con un soldato di qua e uno di là, a guardia. Vicino al Re c'era il Coniglio Bianco, con una tromba in una mano e un rotolo di pergamena nell'altra. Nel mezzo della Corte c'era un grande piatto pieno di pasticcini: avevano un aspetto così attraente che Alice a guardarli provò un grande appetito.
- Vorrei che il processo fosse finito - disse fra sé - e che si distribuissero i rinfreschi.
Ma sembrava che non ci fosse nessuna speranza in proposito, e allora cominciò a guardarsi intorno, tanto per passare il tempo.
Prima d'allora, Alice, non aveva mai messo piede in un tribunale ma aveva letto qualcosa nei libri intorno all'argomento e fu molto compiaciuta accorgendosi che conosceva il nome quasi d'ogni cosa, là dentro.
- Quello è il giudice - si disse - perché ha quella gran parrucca.
Il giudice, in quel caso, era il Re stesso; e siccome portava la corona sopra la parrucca, aveva l'aria sentirsi molto a disagio e non aveva un aspetto debitamente imponente.
«E quello è il banco dei giurati» pensò Alice «e quelle dodici bestiole, suppongo che saranno i giurati.»
Ripeté a se stessa due o tre volte l'ultima parola, sentendosi piuttosto orgogliosa della sua scienza: perché pensava, e giustamente, che poche bambine della sua età sarebbero state in grado di spiegarle il significato di certi termini.
I dodici giurati erano tutti affaccendati a scrivere su delle lavagnette.
- Che stanno facendo? - bisbigliò Alice al Grifone - non possono aver nulla da scrivere, ancora, perché il processo non è cominciato.
- Stanno scrivendo i loro nomi - bisbigliò in risposta il Grifone - per paura di dimenticarseli prima che il processo cominci.
- Che stupidi! - cominciò Alice a voce alta, indignata, ma si mise subito zitta perché il Coniglio Bianco gridò:
- Silenzio nella Corte!
E il Re inforcò gli occhiali e guardò attentamente intorno per vedere chi parlasse.
Alice vide benissimo, come se stesse guardando al di sopra delle loro spalle, che tutti i giurati scrivevano "che stupidi" sulle loro lavagne, e si accorse anche che uno di loro non sapeva come si scrivesse la parola "stupidi" e lo chiedeva al suo vicino.
- Un bel pasticcio saranno le loro lavagne prima che il processo sia finito! - si disse Alice.

Uno dei giurati aveva un gessetto che strideva. Alice naturalmente non poteva sopportarlo; attraversò la Corte, venne a mettersi dietro di lui e fece in modo di portargli via il gessetto. Tutto questo fu fatto con tanta rapidità che il povero piccolo giurato (era per l'appunto Memmo, il lucertolone) non riusciva a capire che diavolo fosse capitato al suo gessetto; per cui, dopo averlo cercato un bel pezzo lì intorno, fu costretto a scrivere con un dito per tutto il resto della seduta; e quale fosse il risultato ve lo potete immaginare, perché il dito, naturalmente, non lasciava alcun segno.
- Araldo, leggete l'accusa! - disse il Re.
Il Coniglio Bianco soffiò tre volte nella tromba, poi svolse la pergamena e lesse quel che segue:

La Regina di Cuori fece delle tartine
in un giorno d'estate;
il (fur)Fante di Cuori rubò quelle tartine
e poi se l'è mangiate.

- Riflettete al vostro verdetto! - disse il Re al Giurì.
- Non ancora, non ancora! - lo interruppe in fretta il Coniglio Bianco - ci manca ancora un bel po' prima di arrivare a questo!
- Chiamate il primo testimone! - disse il Re.
E il Coniglio Bianco soffiò tre volte nella tromba e gridò:
- Primo testimone!
Il primo testimone era il Cappellaio. Avanzò con una tazza di tè in mano e un pezzo di pane e burro nell'altra.
- Scusatemi Maestà se vengo con questa roba in mano: ma non avevo finito di prendere il tè quando sono venuti a cercarmi.
- Avreste dovuto aver già finito - disse il Re - Quando cominciaste?
Il Cappellaio guardò la Lepre Marzolina, che l'aveva seguito alla Corte a braccetto col Ghiro:
- Mi pare che fosse il 14 di Marzo - disse.
- Il 15 - corresse la Lepre Marzolina
- Il 16 - disse Ghiro.
- Scrivete! - ordinò il Re ai giurati che premurosamente scrissero tutte e tre le date sulle loro lavagne, poi le addizzionarono e le ridussero a lire e centesimi.
- Il vostro cappello! - disse il Re - Levatevelo!
- Non è il mio - osservò il Cappellaio
- RUBATO! - esclamò il Re, rivolgendosi ai giurati, che subito presero nota del fatto.
- Tengo i cappelli per venderli - si affrettò a spiegare il Cappellaio; - non ho un cappello mio. Sono un cappellaio.
A questo punto la Regina inforcò gli occhiali e cominciò a fissare severamente il Cappellaio che diventò pallido e inquieto.
- Fate la vostra testimonianza - disse il Re - e non siate nervoso, o vi faccio giustiziare sul posto.
Queste parole non sembrarono incoraggiare affatto il testimone che cominciò a dondolarsi ora su un piede ora sull'altro, guardando ansiosamente la Regina, e nella sua confusione addentò un gran pezzo di tazza invece che il pane col burro.

Proprio in quel momento Alice avvertì una sensazione molto curiosa che la imbarazzò un bel po' finché scoprì di che si trattava: semplicemente, stava crescendo di nuovo. Dapprima pensò che avrebbe fatto bene ad alzarsi e a lasciare la Corte, ma riflettendo meglio, decise di rimanere dov'era finché ci fosse posto per lei.
- Mi farebbe un piacere se non spingesse così - disse il Ghiro che sedeva accanto a lei - posso appena tirare il fiato.
- Non posso farne a meno - disse Alice - sto crescendo.
- Ma lei non ha il diritto di crescere QUI! - disse il Ghiro.
- Non dica sciocchezze! - rispose Alice più audacemente - anche lei sta crescendo!
- Sicuro! Ma io cresco ad una velocità ragionevole - disse il Ghiro - e non in quel modo ridicolo!
Si alzò molto seccato e se ne andò dall'altro capo della sala.
Durante tutto questo tempo la Regina aveva continuato a fissare il Cappellaio, e proprio nel momento in cui il Ghiro attraversava la Corte, disse a uno degli ufficiali:
-Portatemi la lista dei cantanti dell'ultimo concerto!
A queste parole il disgraziato Cappellaio cominciò a tremare talmente forte che uscì fuori dalle scarpe.
- Fate la vostra testimonianza - ripeté arrabbiato il Re - o sarete giustiziato all'istante, sia che siate nervoso o no.
- Sono un pover'uomo, Maestà - cominciò il Cappellaio con voce tremante - e non avevo ancora cominciato a prendere il tè... Non... Circa una settimana o così... E che si può dire delle fette di pane col burro che diventano sempre più sottili... e del tremolare del tè...
- Il tremolare di che cosa? - chiese il Re.
- Cominciò col tè...
- Col "", volete dire! Si capisce che "tremolare" comincia col "" - disse il Re con tono aspro - non c'è bisogno che veniate a insegnarmelo voi. Mi avete preso per un somaro?
- Sono un pover'uomo - seguitò il Cappellaio - dopo questo, la maggior parte delle cose cominciò a tremolare... Soltanto, dice la Lepre Marzolina...
- Non lo dicevo! - interruppe in fretta la Lepre Marzolina.
- Sì che lo dicevi! - insistè il Cappellaio.
- Nego! - disse la lepre Marzolina.
- La Lepre Marzolina nega - disse il Re. - Lascia indietro questa parte.
- Bene, in ogni modo il Ghiro diceva... - continuò il Cappellaio guardando ansiosamente il suo amico, per vedere se anche lui avrebbe negato.
Ma il Ghiro non negò nulla perché dormiva sodo.
- Dopo questo - seguitò il Cappellaio - mi preparai ancora qualche fetta di pane col burro...
- Ma che cosa diceva il Ghiro? - chiese uno dei giurati.
- Questo non me lo ricordo - rispose il Cappellaio.
- Dovete ricordarlo - disse il Re - o sarete giustiziato.
L'infelice Cappellaio lasciò cadere la tazza e il pane col burro e mise un ginocchio a terra:
- Sono un pover'uomo Maestà - cominciò - un uomo da nulla...
- Proprio un buono a nulla! - disse il Re.

A questo punto uno dei porcellini d'India applaudì e fu immediatamente soppresso dagli ufficiali della Corte. (Siccome questa espressione è piuttosto grave, vi spiegherò come si procedeva in questa faccenda. Gli ufficiali avevano un grande sacco, che si legava alla bocca con delle stringhe: ci infilarono dentro il porcellino d'India, con la testa per prima, legarono il sacco e poi ci si misero a sedere sopra.)
(«Son contenta di vedere che si fa così» rifletté Alice «ho letto tante volte nei giornali, alla fine dei processi: "Ci fu un tentativo d'applausi che fu immediatamente soppresso (o represso) dagli ufficiali della Corte", e non avevo mai capito fino ad ora che cosa significasse questa espressione».)

- Se è tutto qui quello che sapete - disse il Re al Cappellaio - potete mettervi giù.
- Non posso mettermi più giù di così: sono sul pavimento - rispose il Cappellaio.
- Insomma potete mettervi giù a sedere - disse il Re.
Qui un altro porcellino applaudì e fu soppresso.
«Bene» pensò Alice «In questo modo si finiscono tutti i porcellini d'India e poi si spera che si andrà avanti meglio».
- Preferirei andarmene a finire il mio - disse il Cappellaio, con un'occhiata ansiosa verso la Regina che stava leggendo la lista dei cantanti.
- Potete andare - disse il Re.
E il Cappellaio scappò via, senza nemmeno fermarsi a rinfilarsi le scarpe.
-... E a proposito, - aggiunse la Regina rivolgendosi a uno degli ufficiali - tagliategli la testa.
Ma il Cappellaio era fuori di vista prima ancora che l'ufficiale avesse raggiunto la porta.

- Chiamate il secondo testimone! - disse il Re.
Il secondo testimone era la cuoca della Duchessa. Aveva in mano la pepaiola; Alice lo indovinò subito, prima ancora che essa fosse entrata nella Corte, dal modo in cui cominciarono subito a starnutire quelli che erano vicino alla porta.
- Fate la vostra deposizione! - ordinò il Re.
- No! - disse la cuoca.
Il re guardò preoccupato il Coniglio Bianco che disse a bassa voce:
- Vostra Maestà deve interrogare il testimone.
- Già, devo, devo, devo - disse il Re con tono malinconico e, dopo aver incrociato le braccia sul petto, fissando severamente la cuoca finché le sopracciglia aggrottate nascosero quasi completamente gli occhi, chiese con voce profonda:
- Con che cosa si fanno i pasticcini?
- Pepe soprattutto - disse la cuoca.
- Melassa - borbottò una voce assonnata dietro di lei.
- Catturate quel Ghiro! - strillò la Regina - Decapitate quel Ghiro! Cacciate quel Ghiro fuori dalla Corte! Sopprimetelo! Pizzicottatelo! Strappategli i baffi!
Per qualche minuto l'intera Corte fu in scompiglio, occupata a scacciare il Ghiro; e quando finalmente tutti furono tornati ai loro posti, la cuoca era sparita.
- Non importa - disse il Re con aria molto sollevata. - Chiamate l'altro testimone - (e aggiunse sottovoce alla Regina: - Proprio, mia cara, quest'altro testimone dovresti interrogarlo tu. M'è quasi venuto il mal di capo!).

Alice guardava il Coniglio Bianco che frugava con gli occhi la lista, ed era molto curiosa di vedere chi mai sarebbe stato il nuovo testimone «perché finora» si diceva «non hanno ricavato granché dai loro testimoni».
Figuratevi la sua sorpresa quando il Coniglio Bianco gridò con la sua voce più acuta:
- Alice!
- Eccomi! - gridò Alice, dimenticando nella confusione del momento quanto fosse cresciuta negli ultimi istanti, e saltò su così in fretta che con l'orlo del vestito urtò il banco dei giurati, rovesciando tutti i giurati sulla testa della folla di sotto; i poveretti rimasero sparpagliati di qua e di là, così che le ricordavano un certo globo di pesciolini dorati che la settimana prima aveva ribaltato accidentalmente.
- Oh, scusate! - esclamò costernata; e cominciò a raccattarli più alla svelta che poté perché, con l'incidente dei pesci dorati sempre in testa, aveva una vaga idea che dovessero essere ripescati subito e rimessi nel loro banco o sarebbero morti.
- Il processo non può continuare - disse il Re con voce molto grave - finché tutti i giurati non sono di nuovo al loro posto. TUTTI! - ripeté con grave enfasi, fissando severamente Alice mentre parlava.
Alice guardò il banco dei giurati e vide che, nella fretta, aveva messo il lucertolone a testa in giù e la povera bestiolina agitava malinconicamente la coda, assolutamente incapace di muoversi. Lo prese su e lo rimise subito per il verso giusto.
- Non che la cosa abbia grande importanza - si disse Alice - penso che così o a testa in giù sarebbe press'a poco della stessa utilità per l'esito del processo.
Non appena il Giurì si fu un po' rimesso dallo spavento di quel capitombolo, e non appena furono ritrovati e resi a ciascuno gessetti e lavagne, tutti si misero molto diligentemente a scrivere un resoconto dell'incidente.
Tutti, meno il povero Memmo che sembrava troppo scombussolato per far qualcosa e sedeva a bocca aperta, con gli occhi al soffitto.
- Che cosa sapete intorno a questa faccenda? - chiese il Re ad Alice.
- Nulla - disse Alice.
- Nulla di nulla? - insisté il Re.
- Nulla di nulla.
- Questo è molto rilevante - disse il Re, rivolto ai giurati.
I giurati stavano per scrivere queste osservazioni sulle loro lavagne, quando il Coniglio Bianco intervenne:
- Irrilevante, intende dire naturalmente vostra Maestà - disse col tono più rispettoso, ma facendo dei segni molto significativi al Re mentre parlava.
- Si capisce, si capisce, irrilevante, voglio dire - si affrettò a dire il Re; e continuò fra sé e sé, a bassa voce: - rilevante... irrilevante...irrilevante... rilevante - come per sentire quale delle due parole suonasse meglio.
Alcuni giurati scrissero "rilevante" e altri "irrilevante".
Alice lo vide benissimo perché era abbastanza vicino per leggere sulle lavagne: «ma non importa un bel niente» pensò.
In quel momento il Re, che era stato affaccendato per qualche minuto a scrivere nel suo libro d'appunti, gridò:
- Silenzio!
E lesse dal suo libro:
- Regolamento n. 42: tutte le persone alte più d'un miglio dovranno lasciare l'aula del tribunale.
Tutti guardarono Alice. - Io non sono alta un miglio.- disse Alice.
- Lo siete - disse il Re.
- Quasi due miglia!- rincalzò la Regina.
- Bene, sia come vi pare, non me ne andrò! - disse Alice.
- Prima di tutto non è un regolare regolamento: l'avete inventato proprio ora.
- è il più vecchio regolamento sul mio libro.- disse il Re.
- Allora sarebbe il n. 1 - disse Alice.
Il Re impallidì e chiuse in fretta il libro.
- Riflettete al vostro verdetto - disse al giurì con voce bassa e tremante.
- Ci sono ancora delle testimonianze da esaminare, col beneplacito di vostra Maestà - disse il Coniglio Bianco, slanciandosi in avanti in gran fretta.
- Questo documento è stato raccolto proprio ora.
- Che cosa contiene? - interrogò la Regina.
- Non l'ho ancora aperto - disse il Coniglio Bianco - ma sembra che si tratti di una lettera scritta dal prigioniero a... a qualcuno.
- Dev'essere proprio così - disse il Re - a meno che non sia una lettera scritta a nessuno, cosa che è piuttosto fuori del comune - a chi è indirizzata? - chiese uno dei giurati. - Non c'è nessun indirizzo - disse il Coniglio Bianco - all'esterno non c'è scritto nulla.- spiegò la carta mentre parlava e aggiunse: - non è una lettera, dopo tutto: è una poesia. - è scritta di pugno del prigioniero? - domandò un altro giurato.
- No, non è la sua scrittura - disse il Coniglio Bianco - e questa è la cosa più strana.
Tutti i giurati parvero imbarazzati.
- Deve avere imitato la scrittura di qualcun altro - disse il Re.
Tutti i giurati si illuminarono.
- Col beneplacito di Vostra Maestà - disse il Fante - Io non ho scritto la poesia e nessuno può provare che l'ho scritta: non c'è la mia firma.
- Il fatto che non l'abbiate firmata - disse il Re - non fa che peggiorare la cosa. Se non ci fosse stata sotto qualche malizia, avreste messo la vostra firma come qualunque galantuomo.
Questa parole furono seguite da un battimani generale: era la prima cosa veramente intelligente che il Re avesse detto quel giorno.
- Questo, naturalmente, prova la sua colpa - disse la Regina - per cui tagliategli...
- Questo non prova un bel nulla! - disse Alice.
- Come!? Se non sapete nemmeno quel che c'è scritto dentro!
- Leggete la poesia! - ordinò il Re.
Il Coniglio Bianco inforcò gli occhiali.
- Col beneplacito di vostra Maestà, da dove devo iniziare? - chiese.
- Iniziate dall'inizio - disse gravemente il Re - e andate avanti fino alla fine; poi fermatevi.
Si sarebbe sentita volare una mosca, nella Corte, mentre il Coniglio Bianco leggeva questi versi:

Disse che andava colui da lei
per farmi rammentare.
Io se potessi ci tornerei,
ma, ahimè, non so nuotare.

Mi mandò a dire che non ci andassi
(san già la verità).
Se mi spingesse nei mali passi,
di te che mai sarà?

Io a lei sol uno,
due loro a lui,
a noi tu più di tre;
tornaron tutti, ragion per cui
saran tutti per me.

Se si dovesse, noi due, per caso,
trovarci in questo affare,
dice che quello ci mette il naso
e sa di rimediare.

Non ti nascondo che il mio pensiero,
prima di quest' attacco,
è che un impiccio tu sia davvero,
e causa dello smacco.

Fa' che non sappia la preferenza
che noi abbiam per loro,
e se anche, questo ti par scemenza,
credi, il silenzio è d'oro.

- Questa è la più importante testimonianza che abbiamo trovato fino ad ora - disse il Re, fregandosi le mani. - Signori giurati, riflettete al...
- Se qualcuno può spiegare quella filastrocca - disse Alice, la quale era talmente cresciuta in questi ultimi pochi minuti che non aveva minimamente paura di interrompere il Re - se qualcuno può spiegarla, gli do una lira. Non credo che ci sia un briciolo di senso comune in tutte quelle parole!
Tutti i giurati scrissero sulle loro lavagne: "essa non crede che ci sia un briciolo di senso comune in tutte quelle parole".
Ma nessuno di loro fece il più piccolo tentativo per spiegarle.
- Se non c'è nessun senso - disse il Re - ci risparmiamo un mondo di fastidi, perché non abbiamo nessun bisogno di trovarcene uno. - e tuttavia... tuttavia non so - aggiunse, stendendo la carta sul ginocchio e sbirciando i versi con un occhio solo - mi sembra che qualche senso, dopo tutto, ci si possa trovare... "ahimè non so nuotare"... Voi non sapete nuotare, vero? - chiese rivolto al Fante. Il Fante scosse tristemente le testa:
- Ho l'aria di uno che sa nuotare?
(Certamente non aveva l'aria di uno che sa nuotare, essendo fatto interamente di cartone.)
- Benissimo, fin qui - disse il Re; e seguitò a borbottare fra sé e sé i versi: - "san già la verità"... Questo si riferisce certamente ai giurati. "se mi spingesse nei mali passi"... è un'allusione alla Regina... "che mai sarà di te?"... eh, eh, sicuro: che sarà di te?... "io a lei sol uno, due loro a lui"... dev'essere quel che ha fatto dei pasticcini, si capisce...

- Ma il verso seguente dice: "tornaron tutti" osservò Alice.
- Infatti, eccoli là! - disse il Re trionfante, indicando i pasticcini sulla tavola. - Nulla potrebbe essere più chiaro! Poi, vediamo: "... prima di quest'attacco...". Tu non hai mai avuto degli attacchi di rabbia, vero, mia cara? - disse alla Regina.
- Mai! - urlò furiosa la Regina, e scaraventò un calamaio addosso al povero Memmo.
(L'infelice Memmo aveva smesso di scrivere col dito sulla lavagna, essendosi accorto che non lasciava alcun segno; ma ora ricominciò in fretta, servendosi dell'inchiostro che gli colava giù per la faccia, finché ce ne fu.)
- Se non hai avuto degli attacchi - seguitò il Re - allora la cosa non attacca.
E girò lo sguardo sull'assemblea con un sorriso.
Ci fu un silenzio mortale.
- è un gioco di parole - spiegò il Re, con aria offesa; e tutti risero.
- Signori giurati, riflettete al vostro verdetto! - disse il Re per la ventesima volta circa, in quel giorno.
- No, no - disse la Regina; - prima la sentenza, il verdetto dopo.
- Idiozia e stupidaggine! - disse Alice a voce alta.
- Che bell'idea! La sentenza prima del verdetto!
- Tieni a posto la lingua! - gridò la Regina, diventando paonazza.
- No!- disse Alice.
- Via la testa! - urlò con quanto fiato aveva in gola la Regina.
Nessuno si mosse.
- E che m'importa di voialtri? - disse Alice (che aveva intanto raggiunto completamente la sua statura). - Non siete niente altro che un mazzo di carte!

A queste parole, l'intero mazzo di carte si sollevò nell'aria e ricadde svolazzando giù sopra di lei. Alice mandò un piccolo grido, mezzo di paura e mezzo di rabbia, e cercò di scacciarlo via e... si trovò distesa sulla panchina, con la testa in grembo a sua sorella, che stava togliendole dolcemente dal viso alcune foglie morte che erano cadute giù dagli alberi.
- Svegliati Alice, cara! - disse la sorella - che sonno lungo hai fatto!

Alice nel paese delle Trombavoglie (I)



Introduzione di Davide Sala ad Alice nel paese delle meraviglie

(Edizione Giunti)

Un'ultima riflessione, su moralità, amoralità, immoralità nei racconti per bambini. Sappiamo tutti quali sono gli ingredienti che, nella società contemporanea, fanno il successo dei prodotti narrativi per giovanissimi. Avventura, sesso e violenza spinti e banalizzati all'estremo incollano senza scampo i nostri figli alla serie televisiva, al film, al fumetto di turno. Una mancanza di cultura, o forse di memoria culturale, ci fa spesso dimenticare che gli stessi ingredienti hanno incollato a libri e racconti generazioni di giovani fin dagli albori della storia. Puntando l'attenzione su prodotti narrativi per bambini, non possiamo fare a meno di notare come sesso e violenza siano le basi, più o meno celate, delle favole della nostra infanzia.
Chi può negare la pioggia di sangue che lorda le pagine di Cappuccetto Rosso? Chi disconosce la simbologia fallica del naso di Pinocchio? Se controbattiamo che in Cappuccetto rosso la violenza è confinata nella sfera della fantasia dovremmo riconoscere di aver cresciuto figli così mentecatti da credere prodotti della cronaca le Tartarughe Ninja o i Power Rangers. Se invece confidiamo nel mascheramento del simbolo sessuale da parte del Collodi, dovremmo interrogarci sugli effetti deleteri di un messaggio subliminale del tipo: se dici le bugie ti diventa lungo.
Spesso ci si sofferma troppo sulla superficie dei prodotti narrativi per bambini (enumerando morti ammazzati, parolacce e seni nudi contenuti in ognuno di essi), senza curarsi minimamente delle loro strutture assiologiche profonde.
Anche in Alice nel paese delle Meraviglie è possibile individuare simboli sessuali ed episodi di violenza inaudita: da una parte il collo/fallo della bambina che si allunga a dismisura o la porticina/vagina nascosta dietro la tenda; dall'altra una Regina sanguinaria che fa decapitare chiunque le capiti a tiro, o il crudele "richiamo all'ordine" dei porcellini d'India.
Questo tipo di violenza non differisce dai Power Rangers perché meno 'reale', ma piuttosto perché è la concretizzazione di uno schema assiologico profondo in cui la significatività, l'efficacia e l'etica stessa della convenzione-violenza sono radicalmente messe in ridicolo: è a questo livello profondo che è forse possibile fare dei distinguo: le liste dei morti ammazzati o dei nudi integrali risolvono ben poco.

20081201

In vena di ricordi



Erano due fratelli, Bruno e Marino.

Bruno, il maggiore, era un uomo preciso, metodico, ingenuo e onesto fino all'inverosimile, che aveva preso per moglie una donna forte che amava per continuare a fare il suo mestiere: il contadino.

Marino invece era bello come il sole, estroso, artista, con un carattere chiuso e impenetrabile che aveva un grande sogno nel cassetto: fare il marinaio.

C'era (e c'è ancora) una vasca, che a quel tempo poteva essere paragonata ad una piscina che pochissimi poderi avevano.

E lì Marino si allenava, su e giù per quella vasca, in attesa della sperata risposta positiva che lo avrebbe fatto entrare in Marina.

Quella lettera non arrivò mai a destinazione perché i parenti anziani la strapparono di nascosto: doveva mandare avanti il podere con il fratello, non poteva scegliere.

Marino non fu più lo stesso. Troppo deluso non provò neanche a ribellarsi a quello che era stato deciso come il suo destino, si chiuse sempre di più e lavorò la terra.

Ed era bravo.

Aveva la capacità di riuscire brillantemente in qualsiasi cosa facesse, anche quando andò a lavorare in una cava di travertino.

Bruno e Marino la comprarono e arrivavano da svariati posti della Toscana per acquistare il travertino che tagliavano i due fratelli lavorando duramente, senza sosta, spaccandosi la schiena.

La Collegiata del paese è rivestita da quel travertino.

Dovettero vendere la Cava per pochi spiccioli "per il bene del popolo", prima che gli venisse espropriata per il medesimo motivo.

Inutile dire che quel "bene del popolo" non ci fu neanche lontanamente... ma di questo non voglio ricordare niente.

Bruno era mio nonno.

Marino era lo zio Marino.

Bruno morì che avevo tre anni e ancora me lo ricordo, Marino prese il suo posto come nonno e come contadino.

Portò avanti il podere completamente da solo.

Mi portava da bambina, d'estate, al bar del paese e in un certo senso mi proteggeva perché al mio arrivo era guardata dagli altri bambini sempre un po' di traverso... "è arrivata la fiorentina" dicevano fra loro.

A quell'età mi sentivo emarginata da quei contadinotti ma col tempo imparai a trarre vantaggio dall'essere considerata una cittadina.

Mi comprava la coppettina Sammontana panna e cioccolato, sempre quella, e non mi diceva niente.

Ma non potrò mai dimenticare quanto amore ci fosse in quella carezza sulla mia guancia, in quel suo sorriso rassicurante, senza parole, non c'era bisogno, io capivo.

Quante volte mi portava alla trebbiatura che era come una festa per me, o a vedere i maialini appena nati, o a cavallo delle mucche del suo fratello di latte.

Sul trattore (che c'è ancora) non mi ha mai voluto portare perché era troppo premuroso ma quante volte l'ho visto arare il campo fino al tramonto.

Quanta terra hai lavorato Marino!

Quanto eri infelice.

L'ho sognato molti mesi fa vestito come Corto Maltese, una bianchissima uniforme da marinaio.

Nonostante sia morto da una ventina d'anni deve aver realizzato il suo sogno da non molto.

Non mi ha detto niente, solo il suo sorriso.



Perché i film di Totò mi alzano il morale: