20080929

"Pene” di morte



Tratto da:

La donna sulle dune - Anais Nin

Era a Parigi quando avevano impiccato un radicale russo che aveva ucciso un diplomatico …
A quei tempi per chi commetteva reati gravi esisteva ancora la pena di morte. Generalmente veniva eseguita all’alba, quando nessuno era ancora alzato, in una piccola piazza vicino alla prigione della Santé, dove ai tempi della rivoluzione si ergeva la ghigliottina …
Tutti gli studenti e gli artisti di Montparnasse, i giovani agitatori e rivoluzionari avevano deciso di assistere all’esecuzione. Aspettarono alzati tutta la notte, ubriacandosi. Lei aveva aspettato con loro, si era ubriacata con loro, e si sentiva molto eccitata e impaurita. Era la prima volta che stava per vedere impiccare qualcuno. Era la prima volta che era testimone di una scena che si era ripetuta molte, molte volte durante la rivoluzione. Verso l’alba la folla si spostò verso la piazza, avvicinandosi il più possibile nonostante il cordone di poliziotti, e si raccolse in cerchio. Lei si sentiva trasportata dalle ondate di folla e di gente che spingeva verso un luogo che distava dieci metri dall’impalcatura. Stava là, spinta verso il capestro, osservando affascinata e terrorizzata. Poi un movimento della folla la allontanò dalla sua posizione. Poteva ancora vedere stando in piedi. La gente la schiacciava da tutte le parti. Il prigioniero fu introdotto con gli occhi bendati. Il boia lo aspettava, poco distante. Due poliziotti tenevano l’uomo e lentamente lo portavano su per le scale del patibolo. In quel momento si accorse di qualcuno che premeva contro di lei più per ardore che per necessità. Nella condizione di tremore e di eccitazione in cui si trovava, quella pressione non era spiacevole. Il suo corpo era eccitato. Comunque, si poteva muovere a malapena, inchiodata come era dalla folla curiosa …
Due mani le circondarono la vita, e sentì nettamente il corpo di un uomo, il duro desiderio di lui contro il suo culo. Trattenne il respiro. I suoi occhi fissavano il russo che stava per essere impiccato, e che la rendeva dolorosamente nervosa, mentre nello stesso tempo due mani raggiungevano il suo seno e lo schiacciavano. Si sentì stordita da sensazioni contrastanti. Non si mosse, né girò la testa. Una mano stava ora cercando un’apertura nella gonna e trovò i bottoni. Ogni bottone che la mano slacciava la faceva ansimare di paura mista a sollievo. La mano aspettò, temendo una protesta, prima di continuare con il bottone successivo. Lei non si mosse. Poi con una destrezza e una prontezza che non si sarebbe mai aspettata, le due mani le fecero girare la gonna in modo da spostare l’apertura di dietro. In piedi tra la folla, quello che ora poteva sentire era un pene che si introduceva lentamente nell’apertura della gonna. I suoi occhi rimasero fissi sull’uomo che saliva sul patibolo, mentre a ogni battito del cuore il pene guadagnava terreno. Era passato attraverso la gonna e aveva aperto una fessura nelle mutandine. Come era caldo e solido e duro contro la sua carne. Ora il condannato era sul patibolo e il nodo scorsoio gli stava passando intorno al collo. Il dolore provocato da questa visione era così grande da rendere il contatto carnale un sollievo, una cosa umana, calda e consolatoria. Le sembrava che quel pene che si agitava tra le sue natiche fosse qualcosa di stupendo che si aggrappava alla vita, alla vita mentre la morte era così vicina … Senza dire una parola, il russo infilò la testa nel cappio. Il corpo di lei tremò. Il pene si muoveva tra le soffici pieghe delle sue natiche, facendosi inesorabilmente strada verso la sua carne. Lei vibrava di paura, ed era come una vibrazione di desiderio. Come il condannato si trovò lanciato nello spazio e nella morte, il pene vibrò dentro di lei, emettendo a fiotti la sua calda linfa. La folla le spinse l’uomo contro. Smise quasi di respirare, e, mentre la sua paura si trasformava in piacere, in piacere selvaggio sentendo la vita mentre un uomo stava morendo, svenne.


Potrei mettermi a scrivere di come il raggiungimento della morte va di pari passo a quello dell'orgasmo o dell'erotismo come protesta al potere, o ancora lasciarmi trascinare dal confronto della morte (impiccagione) con l'immortalità della vita (sperma).

Non ci penso neanche, troppo difficile, non ne sarei capace.

La verità è che trovo questo passo terribilmente eccitante.

ps: ogni riferimento a fatti, persone, nazionalità è puramente casuale.




20080921

Il Pazzo di Gioia



Tratto da:

Il talento dell’impostore Munal - Francisco Jimenez

Indubbiamente il lavoro a Typler non era mai piaciuto.

Lavorare stanca.

Da giovane aveva anche provato; e l’aveva cercata a più riprese, un’occupazione piacevole e leggera. Senza successo purtroppo.
Aveva provato un po’ dovunque: Agenzie letterarie, Assicurazioni, Studi notarili e posti simili. Ogni volta con entusiasmo minore.
Ogni volta più disarmato, e più sicuro ... che un lavoro adatto a lui non esisteva. Si convinse inoltre che era proprio il lavoro in sé a non andare. E allora? Che cos’altro poteva concludere, se non che un’occupazione valeva l’altra?

Abbattuto, aveva scelto la tipografia di famiglia.

Suo padre ne era stato quasi felice. Lui no, naturalmente. Anche se non era un lavoro vero e proprio, perché della tipografia ne sarebbe stato il padrone, era pur sempre, il suo, un noioso mestiere. Dunque una cosa spiacevole. E già ne immaginava le più fosche conseguenze.

Infatti ...

Aveva appena cominciato a frequentare piombi e rotative che subito era venuto a galla, e s’era fatto via, via più chiaro, più vivo, un brutto non so che, qualcosa ... qualcosa che stava fra Moravia e Sartre.

– Del resto – diceva lui, – sempre e solo manifesti, opuscoli, brochure ... e niente più.

Perciò faceva i suoi bilanci. E non tornavano.

È vero. Un uomo deve avere una professione e lui l’aveva; deve avere degli amici, e i suoi erano sfaccendati, ma c’erano; deve avere una famiglia intorno, e la sua c’era, anche se li guardava tutti e due, suo padre e sua madre, come degli estranei.

E però nient’altro.

Ogni giorno i gesti consueti: lavoro, tennis, caffè in piazza, qualche avventura grigia e triste. Nessun amore vero. Avrebbe saputo anche scrivere, Typler, ma aveva sempre resistito alla tentazione di farlo. Insomma, niente gli dava felicità.

– Era colpa del mondo? – si chiedeva. – O colpa sua?

Certi giorni, rari, ma impietosi, il dubbio gli tornava su come un cibo indigesto che non vuol star giù.

Era lui che era fatto male? Fu questa domanda a portarlo in analisi.

A portarlo in analisi e fargli conoscere Melanine.

Melanine era lievemente meticcia.

Ma appena, appena: padre della Martinica, madre italiana. Typler la incontrava ogni mercoledì, lungo le scale, alle 10 e 25. Deposta ogni enfasi, lei scendeva quei grigi gradini, proprio mentre lui, andandole incontro, li saliva per discenderli poi un’ora dopo, deposta ogni enfasi a sua volta.

Stesso analista. Al secondo piano.

Dapprima evitarono ogni contatto: lui rasentava il muro, lei la ringhiera. Senza guardarsi. Poi i loro occhi si levarono un po’, ma per alcuni mesi si guardarono soltanto. Infine ci fu un timido Buongiorno: sapevano quello che li univa. Era la solidarietà degli oppressi. Anche se nessuno dei due lo era.

A rompere il ghiaccio fra loro fu semplicemente il caso: una libreria, un giorno di sole, un caffè del centro, due analcolici.

– Che fai di bello nella vita? – le aveva chiesto lui.

Lei rispose che lavorava come tecnico bibliotecario all’Istituto di Italianistica. Tre giorni alla settimana. Per il resto, leggeva di tutto. E scriveva (parole sue) cose impubblicabili: di questo ne era convinta anche lei, e tuttavia ...

– Hai mai pensato a pubblicazioni APS: a proprie spese? – aveva chiesto lui.

Sì, certo, ma non aveva mai soldi a sufficienza. Così continuava ad aspettare. Come mai questa domanda? Per caso lui faceva l’editore?

- No, no, magari! Possiedo solo una tipografia.

- Peccato! – disse lei. E gli sorrise.

Da alcuni anni lavoro come psicologo nella clinica per malattie mentali Villa Adele. Non sono del tutto contento del mio lavoro. Me ne rendo conto alla sera, quando ripenso agli eventi della giornata e trovo sempre qualcosa che non va.

Tuttavia sono fortunato, nonostante sia giovane ho trovato subito un lavoro. Anche se purtroppo devo collaborare strettamente con un certo Medici, ruvido psichiatra vicino alla pensione. Non ci vuol lavorar nessuno, con lui. Così, ultimo arrivato, tocca a me. Figurati: io di formazione dinamica e lui di formazione descrittiva. Non ci vado d’accordo neanche un po’: il suo approccio sbrigativo, le categorie vetuste, i suoi stessi modi, mi danno gran da fare.


Come è successo ieri per esempio.

Ieri ha ricoverato un certo Robert Sterne. Anni trentacinque, diagnosi di episodio maniacale in soggetto bipolare (secondo il Medici). Devo dire che la diagnosi è sbagliata?

Lo è.

Ho avuto due colloqui col degente. Credo che sia un narcisista, o forse un istrionico, o un particolare tipo di impostore. Ma maniacale proprio no. Non è quello il suo problema.

Il vero interesse psichiatrico che ha per me questo paziente è che potrebbe essere un impostore. Perché, se fuori nel mondo abbondano, nelle ricerche psicologiche siamo davvero a corto di impostori.

Comunque, dicevo, gli ho parlato. Uno scrittore. A portarlo qui da noi sarebbero state solo alcune manifestazioni un po’ vivaci, magari anche euforiche se vogliamo, da lui espresse purtroppo in luogo pubblico, per la felicità d’aver trovato la sua strada, ossia un nuovo modo di composizione letteraria: riprendere gli originali dei maestri e fare opere migliori delle loro. Produrre palinsesti con una tecnica di sua invenzione. Secondo lui, uno sballo.

Secondo me, se non ho capito male, un’impostura. Si tratta di copiare senza che se ne accorgano, no?


Non sono naturalmente sicuro che lo sia ... se però avessi fra le mani un impostore, sarebbe – accidenti! – un vero scoop, e non me lo lascerei certo scappare. Tra l’altro l’impostura è oggi argomento di moda nel nostro Ordine.
Impostura e altre cose affini.

Eh sì! C’è molto da fare su questo fronte. Soprattutto in casa nostra. Lottare contro gli abusi professionali dei filosofi, contro il soverchiante potere dei medici, contro chi elargisce ai giovani speranze di lavoro inesistenti, contro le troppe scuole di psicoterapia e di counselling; rispondere infastiditi all’imman cabile, telegrafico, infantile, ingenuo “perché non facciamo qualcosa?”, elaborare gli smacchi processuali subiti da sedicenti psicoanalisti ... via ... qui intorno il mondo pullula di psicologi traditori, di finti psicologi, di presunti guaritori, di palestre New Age ... siamo come un forte assediato. Per tacere dei tanti colleghi anziani entrati nell’Albo senza la laurea in psicologia.


Su quest’ultimo punto però la questione è imbarazzante.

Almeno per me. Come potrei scordare che fra questi ci sono i padri fondatori delle prime Facoltà di Psicologia, i professori con cui ho dato gli esami, quelli che mi hanno insegnato le prime cose, che mi hanno proclamato «dottore in psicologia», ecc. ecc. Date queste premesse è ovvio il mio fastidio di sentirli chiamare, questi padri, «abusivi legalizzati»; e di sentir dire: – Si facciano da parte!


Anche perché ricordo quel che diceva spesso mia madre: – I calci nel didietro te li danno sempre con le scarpe che gli hai regalato tu. E io questo non voglio farlo: le mie scarpe le ho avute da loro. È vero, vaga fra noi lo Spettro della laurea in psicologia. E per Lui questi maestri sono degli irregolari.

Però, torno a dire: – Io non posso ...

Anche se la loro propensione, forse preparazione, filosofica, sociologica, pedagogica, letteraria, che io non ho, mi disturba non poco. Troppo colti. E vista la nostra ingratitudine, portati all’isolamento orgoglioso. E poi ... la cultura è pericolosa, coraggiosa, specie se risentita, provocata. Magari da un giorno all’altro questo Sterne, il «ripetitore», tanto per fare un caso, potrebbe «ripetere» i miei modi e fare il terapeuta meglio di me. Basta solo che s’inventi il counselling letterario. Ora che l’idea del counselling è lanciata, che l’onda è partita, chi la ferma più?

Poi è meglio che l’ammetta onestamente: Sterne mi intimidisce.

Non solo mi capita un impostore, categoria di cui so quasi nulla, ma uno studioso di letteratura. Di cui so ancora meno. Una sinergia micidiale per uno scienziatucolo come me. Che non ha mai messo il naso fuori dalla psicologia. Ma non mi lascerò attrarre nel vortice della letteratura. Anche se il ragno seduttore farà di tutto per avvolgermi nella sua tela.

E allora ... regole! Nei nostri colloqui ci si deve attenere alla psicologia.

Come ho già detto: dell’impostura si sa poco. Tranne i pochi saggi di Abraham, della Greenacre o della Deutsch, non c’è altro in giro, che io sappia. E però quasi quasi, mi son detto, meglio così. Andrò incontro al caso più pulito, con un sapere senza fondamenti. Cercherò anzitutto di capire cosa gli è accaduto negli ultimi mesi a questo Robert e da dove trae le parole del suo raffinato farneticare. Sì, perché parla come un manuale di retorica.

Ricordo ancora il primo incontro: doveva essere un colloquio di routine. Ma per me non è stata una passeggiata.

Robert appariva eccitato quel giorno, ma la fuga d’idee non c’era. Era possibile ascoltarlo con ordine e attenzione. Anche se parlava di questioni che non conoscevo, con parole che non sapevo. Ah! Era una persona dall’eloquio affascinante il nostro letterato, non c’è dubbio! Almeno ... a me ... così sembrava. Insomma, mi conquistava. Ma gli impostori immagino che abbiano tutti un loro fascino segreto.

Credo però che il Medici tale qualità nascosta non la notasse nemmeno.

Lui è sicuro che gli impostori siano dei perversi. Ma di questo paziente che sia un perverso non lo si può proprio dire. Questo Robert è strano, è vero, atipico, ma non è né un nevrotico inconsapevole, né un abile ingannatore, perché lui, il proprio metodo, la propria seduzione, lui non li nasconde. Anzi li espone, li difende. In primo luogo la sua tecnica è del tutto voluta, consapevole, e in secondo luogo la vuol spiegare al mondo. La difende e si propone di diffonderla. Anzi, vi è in lui anche una specie di rigore, di severità verso l’impostura. Se non sto attento, a tratti mi pare d’esser io l’impostore, non lui.

Ma forse un po’ impostori lo siamo tutti. O no?



La terapia analitica, con Typler, il tipografo, non aveva funzionato.

Quando, un anno dopo l’interruzione della cura, gli si presentò Melanine, e con quel plico in mano, lui lavorava nell’apatia più completa. Sicché, fu felice del suo arrivo. E quasi lo fu che gli portasse un manoscritto. Anche se sapeva che non scriveva bene, l’arrivo di Melanine era almeno un nuovo evento. Di manifesti, opuscoli e brochure ne aveva piene le scatole.

Interrogata dal suo silenzio, lei disse d’avere un po’ di soldi.

– E te li voglio lasciar qui, se no succede che me li spendo male e subito.
Rassegnato, annoiato, indifferente, Typler ormai non leggeva più quello che stampava. Questa volta però avrebbe fatto un’eccezione. Si trattava di Melanine, perdìo, non solo del suo romanzo. Melanine, la sua sodale di analcolici e transfert. E ora anche APS: Autore a Proprie Spese. Anche a lei la vita dunque non andava a gonfie vele. E adesso, arrabbiata col mondo, voleva il suo libro a tutti i costi. Ci provava così, ad avere un minimo di rivincita. Ebbene, per lei ... ma anche perché ci pensava già da un po’,avrebbe fatto le noiose pratiche per diventare anche un editore.
Insomma, finalmente un po’ di movimento.

E tuttavia a Typler lei raccontò una strana storia.

Strana? Incredibile, direi. Questo romanzo ... non era suo, gli disse, ma di un amico morto in manicomio, e solo lei sapeva di questo scritto. Esisteva un’unica copia, scritta a mano, e ce l’aveva lei. Era quella lì che lui vedeva. Gliel’aveva consegnata l’autore, proprio in clinica, in una delle tante visite che lei gli aveva fatto. Lo era sempre andato a trovare, Melanine, nelle poche settimane di ricovero e aveva parlato coi dottori. E lo psicologo aveva parlato con lei, come se fosse l’unica parente. Lei e lo psicologo avevano assistito, insieme, impotenti ambedue, alla distruzione di uno scrittore. Ora il romanzo ce l’aveva lei e voleva curare la sua pubblicazione.

– Lo faccio per lui, – aggiunse, – perché il lavoro di Robert non
vada perduto.

Typler non sapeva se credere a tutta questa storia, gli sembrava
strampalata.

Sospettava semplicemente che quello fosse uno dei suoi soliti scritti, che lei stessa definiva impresentabili. Pensava che lo credesse ancora una volta da cestino e per correre minor rischio si nascondesse dietro un nom de plume. Insomma, pensava che Melanine attribuisse il suo lavoro a un altro, un amico inventato, e che, per maggior sicurezza, volesse questo inesistente amico in copertina.

Typler, il romanzo, lo lesse per un po’; ma lo restituì poco dopo, ancor prima di finirlo: gli sembrava troppo bello e per di più troppo innovativo per una come Melanine. Si servì però di una scusa graziosa; non capiva la sua grafia, le disse, e la pregava di batterlo a macchina.

Quella dilazione gli serviva anche a prender tempo: gli era venuto il sospetto che quello fosse un plagio. Anche se ancora non sapeva né chi fosse il plagiato, né naturalmente chi fosse il plagiatore: se Melanine o il suo amico morto in manicomio.

Lei lo aveva chiamato Robert, il presunto autore. E diceva di conoscerlo da tempo, di averne seguito il lungo processo creativo, di averne accolto l’intimo tormento.

Pretendeva di conoscere persino il suo TSO, il Trattamento Sanitario Obbligatorio che aveva subìto, e anche le ragioni della sua gioia e del suo ricovero.

Le ragioni del ricovero di Robert Sterne, stilate dallo stesso Medici, parlano di fuga d’idee, logorrea, euforia. Sono d’accordo, è davvero follia, ma follia del dott. Medici, non di Robert. Lui non lo ha nemmeno interrogato il paziente, nemmeno ascoltato. Non ha cercato di capirlo; non gli interessa, a Medici, capire. È davvero incredibile: siamo assediati a destra dagli psichiatri e a sinistra dagli impostori.
E non ci puoi fare niente; né di qua, né di là.

Oh! Non che il mio ascolto di Robert abbia dato importanti risultati. È soprattutto evidente che il suo scopo principale è convincere me, e con me il mondo intero, che lui non imbroglia nessuno, che non è un’impostore. Che il suo metodo è originale, è proprio suo. Che ha molto faticato, ma ora, per un giro di vento, fattosi di colpo amico, la sua abilità ha raggiunto una punta di genialità; una strada nuova, non codificata dalla cultura ufficiale e dal senso comune. Che non capisce perché l’abbiano portato lì. Non è malato, lui ... è solo felice. Ormai il metodo è suo, e non glielo porta via nessuno. Un suo libro uscirà presto, prestissimo. Ne esiste una sola copia manoscritta, che sta nelle mani di un’amica fidata, e quando lui uscirà di qui, la sua scoperta andrà dritta filata in tipografia.

E però desidera spiegarmi.

Desidera dirmi, e devo convenirne se ci penso bene, che lui non si è nascosto, che è stato lui stesso ad annunciare questa scoperta al mondo. Non c’è nessun segreto dunque, nessun imbroglio.

– In cosa consiste questa novità? – gli chiedo.


Lui è un trasformatore di materia, mi dice, un alchimista, un «ricreatore». L’ultima parola è quella che usa di più: «ricreatore». Un tema non facile per i non addetti, ma con pazienza lui mi spiegherà.

Il suo processo compositivo parte da una materia che non è tratta dal mondo, ma da libri, libri altrui, e la sua abilità, il suo contributo, né piccolo, né facile, consiste nel trattarla. Non sta nel materiale, dunque, l’originalità, ma nella disposizione e nel trattamento. Ma come? Non lo sa, la gente, che è quasi impossibile ormai attingere in modo nuovo al mondo delle cose, che le storie son già scritte tutte, e le parole usate tutte, e che si può solo trasporre il già scritto in nuova forma d’arte?

Leonardo copia un viso, lui copia un libro. Anzi più libri.

Ma né il viso di Leonardo, né i libri suoi saranno come gli originali. Gli scrittori riciclano quel che gli è piaciuto nella vita. Leggere molto e «copiare bene» (e faceva con le dita il cenno delle virgolette) è la regola. In questo “bene” stanno tutta la legge e i profeti: un accostamento improvviso di due copiature non congrue, il mescolare due autori poco mescolabili.

Insomma, Robert pretende di affermare la propria identità nell’opera di accostamento, trasposizione, opposizione, che esegue con un metodo peculiare, metodo che è la sua firma, non ancora rivelata, e che si potrà capire dal suo libro.

Rifletto: forse non manipola, magari è anche nel giusto. Forse vuole solo imporre il suo metodo. Ma io sono uno psicologo, non un letterato. Uno psicologo, per di più, desideroso di avere un vero impostore fra le mani. E questo Robert, se andiamo avanti con queste teorie, rischia di non esserlo. Così non demordo.

– Chi è questo Robert? – mi chiedo. – Cosa trasforma? Nella sua famiglia ci sono storie di impostura?

Attendo dunque la sua storia familiare. Voglio fare un nuovo tentativo di
riportarlo con forza alla psicologia.


Nel romanzo che Melanine aveva lasciato in tipografia i medici ci escono male. Ma nemmeno la psicologia vi appare come l’ombelico del mondo. Lei (o chi per lei) vi scrive, infatti, che forse farebbero meno danni alla gente i filosofi e i letterati che non i medici o gli psicologi. Ciò non desta meraviglia, conoscendola.

Naturalmente lei sosteneva con Typler che era Robert, e non lei, a dire questo. E poiché sapeva di non convincerlo del tutto, di Robert gliene volle parlare ancora un po’.

Lui l’ascoltava volentieri.

Robert non aveva una carriera brillante dietro di sé. Prima aveva fatto il lettore di lingua madre. Poi aveva tentato, senza successo, l’esame da ricercatore in Letteratura italiana contemporanea. Per ben due volte era stato respinto. Ma lui si era gettato, ancor più determinato, nel terzo concorso. – Per l’ultima volta – si era detto. E così aveva calcato, finalmente non invano, i corridoi dell’Istituto e atteso, stranamente senza ansia, i risultati. Questa volta favorevoli. Allora esondò, senza rumore, la sua gioia. Da quel momento si stendeva, spianata, la sua strada. Era italianista a pieno titolo anche lui. Prese a frequentare la biblioteca e fu lì che Melanine conobbe i suoi progetti. Divennero amici. La loro amicizia non sorprendeva nessuno: avevano entrambi le stesse ambiziose debolezze.

Venne l’estate e il racconto di Melanine ebbe una tregua. Intanto, il manoscritto, lei lo stava pian piano battendo.


Quando Robert parla con me si calma e non appare confuso. Ne approfitto per indagare sulla sua famiglia, su quell’adolescenza insopportabile, sulla pressione sociale subita, da cui aveva imparato a difendersi in questo modo così personale. Abbandonato dal padre, sospinto dalla madre, era diventato ben presto un distimico ambizioso.

E le due cose, si sa, non stanno bene insieme. Ma in lui c’era in ballo un terzo elemento: l’onestà.

Spinto dall’ambizione, sin da giovane Robert ha sempre desiderato mutare la sua storia personale. Ha sempre voluto una svolta. E però, anche se il suo fine era ferreo, non è mai stato tale da giustificare ogni mezzo. Perché un’etica Robert ce l’ha sempre avuta. E ancora oggi aspira al mezzo migliore e più esplicito, trasparente. Altro che impostore!


Parla però ogni tanto anche di un certo Munal, che a quanto ho capito lo ha preceduto in quest’opera e il cui lavoro lui si sforza di migliorare, di completare. E come Munal, vuole più che altro essere considerato l’inventore di un metodo narrativo anziché un narratore. Il metodo che cerca è questo: leggere, appoggiarsi ad un altro, sia pure per opporvisi. E non ad un altro soltanto. A tanti altri. Come se avesse bisogno di tante alterità, in qualche modo insufficienti da sole, da osservare, da riscrivere, da migliorare. Si ha come l’impressione che non abbia integrato e sintetizzato le introiezioni, ma che le tenga lì, non elaborate, per identificarvisi singolarmente o complessivamente, a seconda dei casi. Come una serie di maschere nell’armadio.

Ma forse il mio giudizio è troppo severo. Ancora non capisco il mondo della composizione letteraria.

Robert non nega, e forse anche qui è diverso dai veri impostori, di desiderare ardentemente la fama e la gloria. Non è un bugiardo, lui; non ingannerà nessuno. Non sottoporrà a nessuno alcuna forma di plagio. Sarà tutto pulito,tutto alla luce del sole. E tuttavia, come i veri impostori, vuole vantaggi materiali. Anche se non necessariamente danaro.


– Come ha fatto Munal! – aggiunge.

Melanine amava raccontare tutto di Robert, per filo e per segno. E l’amico tipografo l’ascoltava volentieri: dopotutto Melanine era la persona meno noiosa che lui avesse attorno. Imparò così da lei che Robert aveva scoperto Munal proprio per caso.

– Robert dice che leggiamo dei libri da bambini e poi ce li scordiamo. – Che colpa ne abbiamo, allora, se scriviamo cose che c’erano anche là? Nel cercare le influenze ci si perde. C’è un’enciclopedia pervasiva sopra tutti noi. C’è l’enciclopedia della nebbie quella del labirinto. L’enciclopedia è l’indistinto.

Robert si chiedeva, allora, se Munal copiasse. «No!» si rispondeva. E lui? Lui avrebbe copiato? No, naturalmente. Nemmeno lui lo avrebbe fatto. Copiare è il verbo giusto solo se fai copie più brutte dell’originale. E lui aveva riscontrato – ecco la cosa mirabile! – che Munal faceva copie più belle. Era certo che anche Omero aveva fatto delle copie più belle.

Aveva un’arte per questo, Munal, e lui non avrebbe avuto pace finché non fosse riuscito a capire come facesse. Infine aveva capito. Il contributo originale di Munal consisteva in quest’arte, in questo miglioramento, non nel soggetto migliorato. Aveva un suo segreto che nessuno fino ad oggi conosceva. Il contributo di Munal alla letteratura stava in questo valore aggiunto. Scoprire il suo modo, raccontare questa scoperta e migliorare addirittura il metodo sarebbe stato il contributo di Robert. La sua novità.

La lampada s’accese un mattino che non era ancor sveglio del tutto: si era affacciata tra le stecche delle persiane una tecnica mirabile. Rendeva perfetto il suo racconto e assenti o ridicole le accuse di plagio. Anzi la tecnica sarebbe stata esplicita e ammirata.
Un caposcuola: sarebbe stata la fama e la ricchezza.

La hybris esplose in lui, incontenibile. Fino a portarlo in clinica.

In questa clinica, fra i tigli odorosi.

Devo dire che comincio piano piano ad entrare nel mondo della letteratura. Faccio tesoro degli insegnamenti di Robert.

Oggi lo considero, il mio con lui, un incontro fortunato. Da che sono qui,anzi, addirittura da quando lavoro, non avevo mai visto un caso simile. E mi rendo anche conto di quanto sia sottile il confine che può separare in Robert la perversione dal genio.


E quel babbeo del mio collega che non prende nemmeno in considerazione le sue motivazioni. È pazzo e basta, dice. E ha già deciso per gli psicofarmaci. Litio e AP. In tal caso prevedo una depressione spaventosa. Perché non vuole nemmeno vederli, i suoi lavori? O capire l’entità del suo intervento a partire dall’opera originale?

Insomma io ... ’sto Medici ... mi fa arruffare il pelo, e lo devo ormai affrontare.


O mi lascia gestire il caso a modo mio, o lo mando al diavolo ... e se lo porti avanti da solo! Certo mi dispiace per il paziente. Insomma vedremo. Intanto ho costretto il primario ad un colloquio con me. Domani mi riceve. Nella biblioteca al primo piano. Ci andrò con le mie prove. Anche se preferirei passeggiare nel parco.

Oggi ci sono i ciliegi in fiore.




Aprile.

Primo piano.

Camici bianchi. Loro due che parlano.

La disputa sulla diagnosi, timida e risoluta a un tempo, avviene nella biblioteca di Villa Adele; che tanto è di modeste dimensioni, quanto dotata di buon personale. Amorevole rifugio per le menti internate. Humana pietas aegris perfugium comparavit: parole scritte in modo stinto sul frontone fatiscente.

I disputanti sono uno psichiatra e uno psicologo. È un meraviglioso aprile, che fatica più del solito ad apparire il più crudele dei mesi.

Parlano di un paziente che sprizza felicità da tutti i pori. È ricoverato lì da tre giorni ormai, logorroico, eccitato. Farnetica, direbbe Pirandello. E lo psicologo, le presunte farneticazioni, nei giorni precedenti le ha registrate.

– Ascolti, ascolti cosa mi ha detto.

«Fingere che un libro esista già. Ecco il segreto di Borges. In realtà quel libro non c’è, non esiste. È davvero opera tua, quel libro che nessuno vedrà mai, che nessuno ha mai scritto ed è tutto nella tua testa. Il libro è tuo, ma tu non lo scriveresti mai perché è tanto brutto che la colpa preferisci che se la prenda un altro, un autore che non esiste. E tu ne fai la critica, lo riassumi, lo commenti, lo stronchi. Fortissimo.
Fingi di commentare una (tua) opera mediocre e ti vanti di averne scoperto i plagi e, soprattutto, intanto la racconti. Che è proprio quello che ti stava a cuore. È formidabile. Borges! Ecco la soluzione! Basta inventare qualcosa di simile. Parli della tua mancanza d’ispirazione, e l’ispirazione è propria questa».


Il primario non dice nulla. Ma si vede che frena l’impazienza e la noia. Così lo psicologo insiste: – Insomma che gliene pare? – dice.

– Perché, ci sono dubbi? – reagisce il primario. – Non le sembra un antisociale? Ingannare così il lettore! Fermo restando il fatto che è anche maniacale. Tutto questo fiume di parole insensate!

– Mah! Ho controllato le sue affermazioni conversando con un addetto ai lavori, un critico, e questo si è incuriosito. Mi ha chiesto se ha già prodotto qualcosa, e se sì, ha detto che gli piacerebbe vederlo. E che le cose, circa la composizione, l’intertestualità, stanno proprio così come dice Robert.

– Oh! Sta’ a vedere che adesso i letterati vengono a insegnarmi il mio mestiere. Non ho bisogno di sapere quel che dicono i critici o gli insegnanti di scrittura. Il delirio è delirio e io so ancora riconoscerlo.

– E se non lo fosse?


A Robert, in clinica, gli fa visita solo lei.

Una donna. Bruttina.

– Mi chiami pure Melanine, dottore – mi dice.

– Va bene, Melanine, può dirmi qualcosa di lui?

– Sì, qualcosa, ma non tanto. So che sta scrivendo un libro. Ma lei Dottore, di lui, cosa mi dice? Come sta, Dottore?

– Non sono preoccupato – le faccio – non credo che sia uno psicotico, o comunque non è certo grave come appare e come crede il primario. Mi sembra al massimo un disturbo istrionico, il suo. O forse no ... ma del resto lei mi può aiutare forse. Per esempio, è al corrente di eventi recenti che possano dirci cosa cercava?

– Ecco – dice lei – cosa cercasse ce lo può chiarire bene un antefatto, di
qualche mese fa.


Sei mesi prima.

Al Caffè Orientale.

Pochi tavoli in piazza.

Fine d’ottobre. Bruma e tempo di castagne.

Robert e Melanine.

– Devo trovare una buona storia per un remake o una «borghesiana». Manca poco alla consegna del mio racconto all’editore e ancora non so che pesci prendere.

Beh! Cosa gli si poteva rispondere, a uno che di «copiare» lo ammetteva con semplicità ormai, con innocenza quasi?
E Melanine parlava ancora di copiare perché ancora credeva che si trattasse di questo; lei li conosceva, sì, i termini ri-creazione, o remake o cover, ma li considerava una presa in giro. Mancanza d’ispirazione bella e buona: ecco che cos’erano. Sapeva che lui soffriva, che le cose non gli davano nulla più che la loro superficie, che non gli aprivano la loro buccia, che lui le guardava inutilmente. Che Robert sentiva una smania, un dolore: e pensava che la vita stava passando invano. E che giorno dopo giorno l’insuccesso perdurante accresceva il conto del tempo perduto.

Fuori l’aria era cenere, e cenere erano le strade e i muri, e i brandelli di cielo. E l’animo di Robert. Perché tutto: aria, strade, muri, trattenevano l’anima nei loro gusci chiusi.

Lei lo aveva guardato ancora una volta di sottecchi. A Melanine ... lui sarebbe anche piaciuto ... se solo avesse avuto un briciolo di talento in più. Il talento di quello d’una volta: lei era un po’ all’antica, ferma all’illusione delle storie originali. E magari anche senza talento, se lo sarebbe preso. Ma lei, Melanine, non era carina; era solo intelligente. Questo lo sapeva e vedeva bene che lui non la voleva. Per descriverlo diceva alle sue amiche: – Avete presente Richard Gere in Mr. Jones? Ecco! Quello lì. Un po’ anche come carattere: ambizioso, gasato e triste insieme.

Robert non aveva pensieri che per il suo lavoro.

Non era affatto un plagio il suo, perché lui, i suoi prelievi, mica li nascondeva. La sua riscrittura dichiarata aveva intenti artistici elevati e manifesti. C’erano stati autori importanti che l’avevano praticata. Così le diceva con pazienza:

– Ci sono storie che saranno riscritte per sempre, storie inesauribili, di cui nessuno può vantare l’originale. Prima del primo scritto c’è la tradizione orale, e prima di quella c’è l’archetipo che parla in noi. Esse vengono continuamente ripetute, ma sono i tempi diversi, il nuovo pubblico che le ascolta, il nuovo tono della voce narrante che, pur nell’uguaglianza della parole, fanno la differenza. È tuttavia una tecnica, quella della “ri-creazione”, che, pur ampiamente usata, oggi non è ancora perfetta. È a quella che vorrei dare veste nuova.

Melanine se lo ricordava bene: Robert in passato aveva sofferto molto per la sua mancanza d’ispirazione. Ricordava quando tristemente contemplava il suo testo, fatto e rifatto interminate volte, parole e più e più disamorate a ogni voltar di foglio o ritornar di riga, e sempre più addentro, dove la parola succede alla parola, il suono al suono.

Ma infine, secondo lui, l’idea era arrivata. Non era il tipo d’ispirazione che intendeva Melanine, quella che aveva raggiunto, ma era pur sempre ispirazione. Si trattava solo di perfezionarla.

Altri copiavano dalla vita; lui e quelli come lui, copiavano dalla carta. Aveva cominciato a cercare le fonti, le storie, i casi, “sulle carte ingiallite”, negli archivi, nelle biblioteche, anziché, come fanno altri, nella strada, o nei comandi di polizia, o nei caffè, o negli stadi. Ma anche in questo severo laboratorio “ri-creatore” aveva provato nei primi anni il tormento della pagina bianca.
Scoprì che non era semplice copiare dalla carta. E i primi scritti abortiti li aveva tenuti per sé. Anche la carta, come prima le cose, tratteneva per ora il suo contenuto. Però, finché non pubblicava, nessuno lo veniva a sapere che a lui mancava lo sguardo, che le pa- gine a lui non mostravano la loro claritas.

Ad ostacolarlo da principio era stato il dubbio che il nuovo modo non sarebbe stato accettato dai critici. Certo sapeva che era concesso farlo, a certe condizioni, e che anzi molti lo facevano, e lo confessavano, e talvolta erano pure apprezzati. Ma erano una minoranza.

Poi si era imbattuto in confessioni illustri, in illustri solidarietà: Cecov, Carver, Eliot. Anche loro lo avevano fatto e lo avevano confessato. Allora l’ispirazione fu libera di arrivare e di manifestarsi.

– Vorrei scrivere di un metodo e con un metodo ... un metodo che mi ricorda un po’ Munal.

Melanine non aveva mai sentito parlare di Munal. E sì che era una bibliotecaria attenta. Chi era Munal? Glielo chiese. Era uno scrittore, fu la risposta, che aveva elaborato un modo geniale per utilizzare le influenze di altri autori. Per Munal era impossibile cancellare le influenze dei maggiori, dei vicini, della tradizione,
dello spirito del tempo. Si trattava piuttosto di dar loro la propria cifra, di migliorarli. Di prendere a prestito e poi restituire. Si trattava solo di una provvisoria, transitoria adozione. Il maestro, la fonte infine sparivano, non ci restava più nulla di loro. Dapprima si faceva strada il loro opposto, il contrario. Poi spariva anche il contrario. E i ripensamenti erano tanti che non restava più nulla della fonte; tutto era nuovo.

– Ma questo Munal esiste veramente o tu fingi soltanto di copiare da lui? E da chi finge di copiare Munal?

La risposta di Robert era troppo vaga per non insospettirla.

– Munal – diceva - aveva come un profumo particolare che metteva nel copiare le parole, e i punti e le virgole. Il segreto consisteva nel contesto diverso in cui cadevano le medesime parole.

Robert voleva imparare il metodo Munal per fare, come lui, una copia superiore all’originale.

– A volte ci sono certi giochi del destino – continuava – per cui ti capita che due cose uguali, in posti diversi, o in tempi diversi, ti appaiano tanto dissimili, che neanche le riconosci.

Era compiaciuto. A tratti sorrideva spavaldo, maniacale quasi, con dei bagliori di sprezzo divino che lo traversavano. Le morbide ciocche gli sussultavano sulla fronte, che scuoteva nella sua eccitazione, ma ritornavano da sole al posto loro, a ricomporre l’armonia del bel Narciso.

Oggi con Medici ho fatto un estremo tentativo. Dargli dei farmaci è un vero delitto.

– La prego, aspettiamo con i farmaci – gli ho detto – mi dia almeno una settimana ... per capire. Un uomo, lo definisca narcisista fin che vuole ... un uomo giunto all’alba di una scoperta dopo tanta ricerca, se lei gli sega la memoria e con essa il piacere e il vanto della sua creazione ... insomma, quello si butta dalla finestra. Specie se ha preso il litio.

Lei dimentica che la responsabilità è mia. Solo mia. Nessuna settimana. Anzi, abbiamo cominciato con il Rivotril ieri sera. E anche lo Ziprexa.

– Oh, Cristo!


Melanine lo aveva cercato sulle enciclopedie più aggiornate.

Aveva cercato «Munal», «Munahl», «Muhnal», «Mhunal», «Munhal». Niente da fare. Quel nome Robert se l’era inventato. Idea formidabile! Ormai ne era convinta anche lei. Bravo Robert! Dichiarare di non saper scrivere e di copiare di sana pianta da uno
scrittore inventato e invece lo scrittore da cui hai copiato c’è e sei proprio tu. Cribbio, che idea! La finzione di essere disonesto che diventa la punta più alta di onestà.

Ma non aveva detto nulla, a nessuno, Melanine. Lei era ricettiva e avara: inglobava e tratteneva. Si era chiusa nella sua idea provvisoria, che magari non era vera, ma sicuramente geniale. Nemmeno si era accorta che in lei stava nascendo il progetto di copiare a sua volta l’amico. Quando Robert le aveva dato il manoscritto in lettura non gli aveva chiesto nulla: glielo desse pure se voleva, l’avrebbe letto volentieri.

Voleva studiarlo a fondo, ma poi lui era morto e ...

La decisione del primario mi ha costernato. Sono andato di volata in corsia e ho trovato Robert che non aveva neanche la forza di parlare.

– Non si perda d’animo! Li sospenderemo, i farmaci – gli ho detto.

– Non mi hanno creduto, non mi hanno creduto. Mi uccideranno e ruberanno il mio lavoro.

Poteva ancora parlare, ma le mani e le gambe restavano inerti.

Che potevo fare? Sono tornato nella mia stanzetta sbattendo le porte e senza salutare chi incontravo. Furioso sui tasti ho battuto una cartella clinica lunga, approfondita, arrabbiata. Col «sopracciglio dell’ira» che non si spianava. La manderò in copia anche alla direzione sanitaria.



Il caso Robert Sterne

Consideriamo il caso di R. S. a partire dall’infanzia, ossia da quando la madre gli diceva: – gliela faremo vedere noi al mondo (e a tuo padre, che ci ha lasciati soli, il buono a nulla) –. Era stato certo anche da questo che Robert deve aver inferito d’essere naturalmente dotato e di non doversi rassegnare a un destino comune. Pensò certamente che a lui non occorreva sforzo per essere il migliore. Cominciò forse ad avere su di sé fantasie positive, ottimiste, inossidabili. Qualunque piccola conquista, anche illusoria e risibile, gli faceva metter su cresta. Il padre li aveva lasciati soli quasi subito. Viveva lontano, nei suoi luoghi, le sue montagne, più adatti a lui che non quelli dove cresceva il bambino e dove abitava sua moglie. Il bimbo dunque era tutto della madre. Che di solito biasimava il padre apertamente, per la sua viltà ad affrontare un mondo più vasto. Nel contempo esibiva il figlio in società con enfasi mal celata. Nel piccolo si formava intanto un parallelo a suo favore: padre debole e deludente, figlio capace e destinato a grandi cose. L’Edipo vittorioso ha così sconfitto il padre e si è preso la madre. E alla madre si sente vicino, tutt’uno con lei e le sue ambizioni. Il narcisismo infantile s’inflaziona. Si accresce in lui un io ideale, quello voluto dalla madre. Non si rende nemmeno più conto, Robert, delle sue minute dimensioni, del suo peso, della sua forza fisica risibile. Si sente, si comporta, come una persona più alta, più forte, più pesante. Comincia ad imitare, a muoversi come se fosse più di quel che è, “come se avesse un pene più grande”. Crescendo ha però bisogno di qualcuno che sostituisca la madre nell’applaudirlo. Deve cercarsi un pubblico altro che gli creda. Così, per verifica. Farà il giornalista, anzi, di più: lo scrittore.
Tuttavia una cosa non quadra. Per i tre anni delle medie e i cinque del liceo rimedia sempre cinque in italiano scritto. L’unica volta che copia un tema se n’accorgono. La copiatura viene valutata con severità, e lui è svergognato davanti a tutti. Questo contrasta duramente con l’obbligo d’essere il migliore e di brillare di fronte ai compagni. Reazione: doveva assolutamente capire. Se non era libero di lasciar fluire nella pagina una vita concreta e vissuta, avrebbe fatto fluire ciò che aveva in abbondanza: una sorta di fantasia combinatoria, logico-matematica. Un dato era certo: la sua pagina doveva essere meravigliosa. Del resto, bravissimo in materie scientifiche, voleva per forza riuscire anche in lettere. Forse doveva già covare in lui l’idea che si poteva scrivere con un modo matematico, combinatorio; si faceva strada l’idea di una struttura narrativa che affondava le radici in una mente estremamente complessa. In fondo era la composizione, l’apposizione, la combinazione di dense parole a fare una sintassi gravida e irrisolvibile.
Cominciò a pensare sempre più spesso a quelle equazioni che generano i frattali. Mano a mano che l’idea comincia a prender forma cerca il modo di produrre scritti di effettivo e autentico valore. Perché lui, dopo quel tema copiato, non vuole più ingannare; non vuole più quella gogna; vuole costruire una copia perfetta in
cui l’originale è dichiarato e irriconoscibile. E rivelarne, nella copia stessa, tutto il meccanismo compositivo.


Stando così le cose come potevo scrivere che Robert è un impostore?

Ma mi gira un po’ la testa, a questo punto. Improvvisamente mi viene in mente un’altra cosa. Anche nella comunità degli psicologi succede in questi giorni qualcosa del genere. Anche lì si dice «impostore» prima ancora di guardare, di sapere. Senza distinguere. Si ragiona per categorie. Impostore è diventato sinonimo di non medico, di non psicologo. Non l’ho forse fatto anch’io in tante discussioni fra psicologi ... l’uno contro l’altro armati fino ai denti. Anch’io figlio della tempesta, angelo sterminatore. Date le spade agli psicologi e scorrerà il sangue. E ora arriva questo Robert a risvegliarmi dal mio sonno dogmatico.

Rinfrancato, con le idee un po’ più chiare, ho proseguito la mia relazione ormai completamente determinato.

Ho scritto nel mio referto che Robert lo aveva trovato, infine, il suo modo e lo avrebbe applicato con facilità ogni volta che avesse voluto, e che ciò lo aveva reso euforico, come se «il treno avesse fischiato».

La biblioteche sono piene di materiale da usare. Il futuro si apre davanti a lui. Gli s’è presentata, improvvisa, una tecnica mirabile. Purtroppo la sua gioia è esplosa ... un po’ troppo, innocente ma incontenibile. Sarebbe stata cosa innocua e breve, se indisturbata. Ma è stata vista. Guai ad esser visti a questo mondo! Una sera lo hanno trovato solo che camminava tranquillo sul parapetto di un ponte; un parapetto largo poco più delle sue suole. Guardava in alto e sorrideva. Sereno. E hanno chiamato chi di dovere. Non sapevano, loro, che lui non soffriva di vertigini e quella cosa l’aveva sempre fatta, quando era allegro o voleva far vedere la sua abilità ai compagni. Quando sono arrivati gli infermieri camminava ancora sul parapetto. Non ha opposto nemmeno resistenza. Era felice. E non la smetteva più di parlare e di comunicare la sua felicità, anche in ambulanza. Robert lo aveva detto anche a Medici: stava bene, lui, perché la Clinica? E aveva continuato a dirlo a tutti, i giorni dopo. Ogni volta che aveva visite non avrebbe smesso mai di parlare e di comunicare, eccitato e raggiante, la sua felicità. Stava bene, lui: perché la Clinica? Aveva scoperto un tesoro; perché la gente non riusciva a vederne gli svi-
luppi?


Ma quando l’incomprensione del primario aveva cominciato a prolungarne la degenza e lui a non vederne più la fine, la cosa aveva cambiato aspetto e l’agitazione aveva cominciato a prenderlo. Anzi, la paura.

Sono un po’ agitato anch’io, mentre lo dico a Medici.


– In definitiva per me si tratta solo di disturbo istrionico o di disturbo narcisista. Può curarlo benissimo a casa.

– Ma dai, è un impostore con accessi maniacali. Lo teniamo un po’ qui e lo salassiamo a dovere. Poi a casa vedrà che glielo manderemo.

– Ma insomma! Basterebbe che lei perdesse un po’ di tempo a capire il suo metodo. Sul serio. La tecnica da lui scoperta, per quel poco che capisco, è davvero geniale. Ci mette molto del suo. Davvero. Non è un impostore.

– No, no, mi creda; è ... un impostore. E anche maniacale.

Come salvarlo da Medici? Mi sento impotente.


La cartella clinica si apre ancora avanti a me per essere completata. Ormai voglio attenermi solo al caso e scordare ogni teoria psicologica. Qui ci vorrebbe piuttosto un critico letterario, non uno psicologo, per dimostrare la correttezza e validità del suo ragionamento, del suo esame di realtà. Il suo è o non è un progetto compositivo possibile? Occorrerebbe un arbitro imparziale per rispondere, perché quelle che stanno l’una di fronte all’altra sono due visioni letterarie, non sanità e follia. Come accade in questi giorni fra psicologia e filosofia. Comincio a capire. L’analogia, la similitudine mi aiutano in questo processo verso la luce. Fra psicologi e counsellor filosofici occorre solo chiarezza e concordia nel fissare una chiara linea di demarcazione fra due progetti molto diversi, fra due domande molto diverse. Occorre un arbitro imparziale che tracci un sereno confine. Un confine non viziato da paure economiche.

Lo ho ascoltato ancora e a lungo. Complice un’infermiera che ha consentito di dargli le pillole solo dopo i miei colloqui. E quello ha continuato a parlare di narrativa, di metanarrativa, di metodi di scrittura.

Mi rendo conto che cerca d’istruirmi. Mi considera ancora troppo lontano dalla materia per poter capire pienamente, ma ha un bisogno estremo che io capisca almeno un po’. Come se percepisse oscuramente che ne va ormai della sua vita. A dir la verità comincio a credere che abbia ragione.

– Le storie sono in tutto quattro o cinque – ripete con ansiosa pazienza. –
Sono nell’aria, le sai anche se non le hai mai lette. Impossibile non subire influenze se vivi in società. Meglio allora conoscere le opere dei tanti che le hanno raccontate e usarle in modo consapevole e geniale. Tanto li subisci comunque ... il Weltgeist, l’intertestualità, l’enciclopedia vivente. Ci vivi dentro.


– Sì, ma il suo caso specifico? – gli faccio.

– Il mio caso specifico? Ecco – risponde Robert – io sogno parole senza cose. Parole che rappresentano parole. Che prendono nuova vita, ogni volta che nasce uno scrittore nuovo. Ma ancora conservando il loro enigma, ancora senza schiudere significati.


<Si accorge della mia attenzione. E prosegue con maggior fervore.

– Sì. La Parola vuole restare significante, interminata gestante di un significato mai nato. Ora qui mi si giudica senza capire; si compilano cartelle cliniche che alludono a significati sicuri quanto discutibili, perentori quanto incerti. Lo psicologo che scrive il referto, riempie la pagina di parole. E le usa come se le possedesse. Ma davvero lo psicologo possiede la parola? Davvero la conosce? Ne ha forse aperta qualcuna, di parola, per conoscere quale insondabile tesoro racchiuda? Perché non lascia che le parole conservino il loro mistero? Allo psicologo resterebbe allora il desiderio buono e sempre vivo per quel significato mai nato. Resterebbe avvolto da ondate potenti, vaghe e molteplici. Ondate inafferrabili e arricchenti insieme. Perché non si esaurisce la sorgente solo intuita.

Da questo colloquio il mio narcisismo ne sta uscendo a pezzi. Dovrò ripensare il mio mestiere? Possiedo io le parole?


Ricordo la presuntuosa e ignara affermazione di un collega: noi psicologi possediamo la parola, usiamola. Ora il paziente mi mette davanti alla nostra ingenuità.


Ritorno con fatica a Robert. Ripercorro il suo racconto, le sedute precedenti.

Aveva letto “La regina Loana” ed era andato in soffitta anche lui, fra i bauli polverosi. S’era imbattuto in Borges. “Finzioni”.


Lampadina! Borges fingeva.

Aveva finito per stordirsi? O gli era stato chiaro tutto e lo stordito sono solo io?


Man mano che aveva proceduto a raccontare, ci avevo capito sempre più e sempre meno a un tempo. E anche ... accidenti, avevo pensato ... se imparano a fare così, come Munal, i falsi psicologi, i counsellors, maghi e compagnia bella, e diventano più bravi degli psicologi veri? E magari più umani e meno aggressivi? Non è che accadrà allora che la gente penserà che chi abusa del titolo opera meglio di chi il titolo ce l’ha o anche semplicemente è più simpatico, più accessibile, più caldo? Perché allora nascerebbe davvero un gran dubbio su ogni cosa, sulle cose più sacre. Già girano un sacco di film in cui si vedono all’opera turisti “per caso” o commercialisti o altro ancora ... più bravi degli psicanalisti, come direbbe Montale, «laureati».

La citazione che non conoscevo era stata di Robert, naturalmente. Ero andato allora a prenderlo in mano, il Montale, e lo avevo letto:


Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla


e ricordo che avevo chiuso gli occhi e vedevo Montale andare lungo i fossi, e
i counsellor non laureati con lui. E mi prendeva l’angoscia: il ragionier Montale è certo più grande dei poeti laureati del suo tempo, avevo dovuto ammettere con apprensione.


Io, si sa, i counsellor non li voglio neanche all’uscio, ma Robert mi aveva fatto capire che non vi sono assoluti ... e lui mi sembra un tipo in gamba, uno che si documenta. Bah! Cosa potevo mai fare o dire con tale confusione in testa? Eppure dovevo!

Perché per giunta, pur nell’incertezza totale, dovevo comunque posare Montale e stilare una diagnosi. La cartella clinica non l’avevo ancora terminata.

Così ieri decisi che avrei concluso con un’arringa difensiva. Lo volevo assolutamente salvare dalle grinfie del Potere, dai diploma di laurea appesi al muro, dai farmaci. E cominciai dunque a scrivere.

Ma purtroppo non ero il solo a farlo. Né il più potente e ascoltato.



Quello che Robert lesse lo stupì. Dolorosamente.

Preferiremmo dire che lo fece trasecolare, ma non sarebbe esatto; ormai era troppo stanco. E non aveva più energia per sentimenti furiosi. Questa, per lui, era davvero la botta finale. La sua vita riscritta a quel modo! La cartella clinica era firmata dal dottor Medici, primario. Sorvoliamo su come Robert se l’era procurata; ci basti sapere che ce l’aveva lì davanti. Le parole che stropicciava fra le mani sudate erano impietose; si pretendeva d’averlo smascherato.

Ma sarà meglio dire cosa c’era scritto.

Si parlava di psicosi maniaco-depressiva con impulsi autoaggressivi, di farmaci per lunghi periodi, e anche di un impostore incallito. Si raccomandava stretta sorveglianza.

Probabile, infatti, il suicidio.


Il suo suicidio non era affatto probabile. È stata la cartella clinica a provocarlo.

Comunque dopo la sua morte, Melanine ha come dire “ereditato” le carte che erano nei suoi cassetti, il suo piccolo “laboratorio di scrittura”. Non c’era stata per lei nessuna difficoltà ad averlo: nessuno si era mostrato interessato.
Piccoli racconti di prova, esercitazioni più che altro, che poi ha passato anche a me. Pare che siamo solo noi due a provare qualche interesse per lui. Dunque li ho letti, quegli appunti.

Accidenti! O sono plagi completi, o era bravo davvero
.

La mia crisi definiva è cominciata lì, con quei quaderni. Dal momento che volevo assolutamente capire e, visto che c’ero, farmi una cultura, appena avuto il materiale mi sono preso un lungo periodo di ferie, insomma tutte quelle che mi spettavano, e mi sono messo a studiare. Come prima cosa ho cercato di pulire la mia mente da ogni concetto, o termine, o parola che la psicologia mi aveva imposto. La Psicologia oggettivante mi risultava opprimente quasi da sempre, e da un po’ mi soffocava addirittura. E sempre più mi chiedevo: dopo tutto quel che è accaduto, anche dentro di me, posso ancora continuare a fare questo mestiere? Un mestiere di cui fanno parte anche i “rattomani”, come lo psicologo fidanzato della Meg Ryan in “Genio per amore”? Perché lo zio Albert preferiva il meccanico?

Questo volevo capire. Se potevo continuare a fare il mio mestiere.

Così in questo periodo di ferie, ormai finito purtroppo, ho frequentato solo la letteratura. Ho cercato cose che potessero darmi un’idea delle fonti di Robert. Ho letto quasi giorno e notte. Non ho cercato Munal, che, ormai l’avevo capito anch’io, non è mai esistito. Ma qualcosa ho trovato, che faceva al caso mio, alcuni racconti, e mi sono lasciato andare, naïf, allo loro analisi critica. Volevo scavare in questo mondo, scavare fino ad avere un’idea precisa. Ma qualcosa ho già, in nuce, nella mente: l’impostura esiste solo nella bassa qualità.


Non si può condannare Robert.

Non si può condannare Robert senza condannare anche me. Anche il lettore plagia e io sono diventato un lettore accanito. Compro ogni tipo di libro sulla scrittura.


Credo di aver imparato tante cose: che un libro è un insieme di simboli morti: le parole. Ma ecco che quando arriva il buon lettore, le parole tornano in vita. Risorgono. Il lettore è uno scrittore straordinario che non lascia traccia di sé. Non ha cambiato una sola parola del libro che ha riscritto.

Mio Dio, quante volte in vita mia ho riscritto l’ermo colle?

Adesso so tante più cose che potrei buttare in faccia al mio ex primario, ora in pensione. In una delle mie letture, ho incontrato queste parole:



Io scrivo per imitazione, e tutta la mia scrittura è un’imitazione. E come insegnante insegno ad adoperare gli esempi e a imitare ... Io cominciai la mia carriera scrivendo una lettera-racconto che ebbe fortuna: il punto è che quel racconto era un’imitazione ... pochi giorni prima ... avevo letto alcuni saggi letterari di T. S. Eliot ... e nel mio racconto provai a fare delle frasi a imitazione di quelle di Eliot ... Alla fine, dentro quella lettera-racconto c’era una quindicina di frasi che io ho preso da questi saggi di Eliot, senza modificarle o modificandole minimamente ...
Il fatto è che io rinuncio qui e ora a qualunque pretesa di originalità. Se ho creduto di fare qualcosa di originale, finora, è stato sicuramente per ignoranza: ho rifatto qualcosa che c’era già, senza conoscerlo ... quel “qualcosa” era dentro la tradizione che mi porta, dentro la cultura che mi contiene. L’imitazione è un atteggiamento morale: non m’interesso tanto di me stesso, quanto della mia posizione nel mondo. Non importa tanto che io stia parlando, quanto che qualcuno sta parlando da questa posizione: qualcuno, che solo per caso sono io, sta parlando da una posizione identificabile dentro la storia e la geografia della letteratura. Imitazione è accettare di essere del proprio tempo e del proprio luogo, e quindi di far precipitare nella propria scrittura ciò che appartiene a questa posizione, a questo tempo e a questo luogo. Imitazione è accettare una finitezza, accettare di stare dentro una tradizione e un contesto, è svalutare se stessi rispetto alla tradizione e al contesto. È rinunciare parzialmente a se stessi per amore ... per amore delle persone che leggono ... facendo nel contempo vedere come pressoché tutto ciò che si agita dentro di me, in realtà provenga da fuori.

Purtroppo il povero Robert non ha mai pubblicato niente di suo. Non ha fatto in tempo. Mi aveva detto di avere un romanzo. Ma dove sia finito non si sa. Magari ne sa qualcosa Melanine. Ma ormai io non la vedrò più; Robert è morto e non abbiamo più motivo d’incontrarci.

Oggi ho pietà del mio primario, in pensione da mesi.


Pover’uomo, non poteva capire. Come non capivo io, all’inizio. Per questo forse a me la pietà non costa nulla. «Non vi si abbeverano anche i porcospini»? Forse il vecchio Medici voleva «trattenere le campane d’argento sopra il borgo e il suono rauco delle colombe», o fermare la vaporiera del nuovo mondo, lui che nemmeno si era nutrito del vecchio.

Perché vedi, caro Medici, questo oggi ho concluso: che nutrirsi di belle cose e replicarle ad arte non è plagio. Magari è impostura proprio la tua povertà di spirito, e non l’assenza di titoli. Hai lavorato molto, Medici: ma esperienza, zero! Perché non ascoltavi, non eri curioso. Forse tu, vecchio descrittivo, nemmeno avevi sentito parlare dei tuoi colleghi che pensano in termini di fenomenologia, di esistenzialismo. Forse credevi che ad avvicinarsi alla verità non fosse il pensiero correttamente usato, ma fossero le leggi degli uomini. Che a validare le teorie fosse il tuo pezzo di carta, che secondo te santifica e rende vero ipso facto il tuo pensiero ... pensiero che non ha altra validazione se non la pergamena appesa al muro.

E poi volevi fare il supervisore. A me. E a me ... dire che sbagliavo. Che ne sai tu della mia anima? Dei miei legami con Robert? Tu, che i legami non li sai nemmeno avere! E non dirmi che non accetto la supervisione. L’accetto. Ma non da te. L’accetto da chi mi ama, mi capisce, mi conosce e mi rispetta.

Mi dirai che non sei il solo a comportarsi così. È vero: non sei il solo. Te lo
riconosco, ahimè. È vero che altri fanno anche peggio. Che nei congressi o nei dibattiti, nelle mailing list o nelle riviste, molti si presentano volontari, ansiosi
di far parte del plotone d’esecuzione, e non ti concedono neanche la benda sugli occhi. È vero che non sei solo, ma questo non ti giustifica. Robert è morto,
perdìo! Morto. Morto perché non lo hai capito. Perché non l’hai ascoltato.

Non l’hai ascoltato, Medici!


E così non sei mai arrivato (peggio per te!) a capire che una malattia può sembrare un’altra, e a volte ne ricalca un’altra. Che non sempre le cose sono come sembrano. Si travestono, si nascondono, non vogliono essere scoperte. Talora lo fanno per darti il meglio. Come il buon plagiatore. Come tanti che ci sono colleghi senza esserlo e portano avanti il mondo insieme a noi. Come tanti che colleghi lo sono a pieno titolo, ma di cui nulla sappiamo e mai sapremo nulla.

Possiamo chiamarli “i silenziosi”?


Matrioška



Oggi, mercatino a Incisa Val d'Arno.


Ovone principale H.12 cm x B. 7,5 cm.
Manufatto di fabbricazione russa, dipinto a mano, venduto da un polacco.


All'interno:


Ovetto n. 1, H. 8 cm x B. 5 cm



Ovino n. 2, H. 6 cm x B. 4 cm.

Costo: ... diciamo che è stato un capriccio.


Ps: Che Dio benedica l'inventore dei brigidini (sempre che se lo meriti).

20080917

Deontologia... anarchica!



Tratto da:

La società degli straccioni, Critica del Liberalismo, del Comunismo, dello Stato e di Dio - Max Stirner

Sentiamo dire, di solito, che senza religione la "grande massa" non ce la potrebbe fare; i comunisti estendono questa affermazione al principio che non solo la "grande massa" bensì tutti, senza eccezione, sono chiamati a tutto.

Non basta che la grande massa venga ammaestrata alla religione, ora deve essere istruita ad occuparsi addirittura di "tutto ciò che è umano". L'addestramento diviene sempre più generale ed avvolgente.

Ma povere creature, che potreste vivere tanto felici se poteste saltare a vostro modo! Invece dovete danzare al fischio di maestri di scuola e domatori d'orsi, per dei pezzi di bravura di cui proprio non sapete che fare! E non recalcitrate mai, neppure una volta, sebbene vi si consideri diversamente da come voi vorreste. No, voi meccanicamente ripetete a voi stessi la domanda che vi hanno insegnato a ripetere:

A cosa sono chiamato? Qual'è il mio dovere?

Così è sufficiente che vi domandiate questo per farvi dire e comandare quale sia il vostro dovere, per farvi prescrivere la vostra vocazione, oppure, anche, ve la comanderete e imporrete da soli, secondo le prescrizioni dello spirito.

Ciò significa, sotto il riguardo della volontà:

io voglio ciò che devo

20080914

Proverbio curdo


Tutti bussano alla porta di chi bussa a tutte le porte.


20080912

Vittime di se stessi


Ecco, si tratta solo di sopravvivere.


Tratto da Amori Ridicoli - Milan Kundera (Scritto in Boemia tra il 1959 e il 1968)

Eduard e DIO

La storia di Eduard possiamo farla utilmente iniziare nella casa di campagna del fratello maggiore. Il fratello, disteso sul divano, diceva a Eduard: «Rivolgiti tranquillamente alla tardona, è una carogna, ma io credo che anche in creature del genere esista una coscienza. Proprio perché un giorno mi ha fatto una canagliata, forse adesso sarà contenta che tu le dia la possibilità di riparare alla vecchia colpa».

Il fratello di Eduard era sempre lo stesso: un buon diavolo e un pigro. Sicuramente se ne stava disteso allo stesso modo sul divano nella sua mansarda di universitario quando, molti anni prima (Eduard era ancora un ragazzino), aveva passato tutto il giorno della morte di Stalin in panciolle e a ronfare; l'indomani era andato in facoltà senza immaginare nulla e aveva visto una sua compagna di corso, la Čecháčková, che con ostentata rigidità troneggiava nell'atrio come la statua stessa del dolore; le aveva girato attorno tre volte e poi era scoppiato a ridere come un matto. La ragazza, offesa, aveva qualificato la risata del compagno come provocazione politica e il fratello di Eduard aveva dovuto lasciare l'università per andare a lavorare in un villaggio dove da allora si era trovato una casa, un cane, una moglie; due bambini e perfino una casetta per le gite in campagna.

Era proprio in quella sua casa al villaggio che il fratello, disteso sul divano, conversava con Eduard: «La chiamavamo il flagello della classe operaia. Ma sono cose che non ti interessano. Oggi è una donna che ha i suoi anni, e ha sempre avuto un debole per i ragazzini, quindi vedrai che ti verrà incontro».

A quel tempo Eduard era molto giovane. Aveva appena terminato gli studi alla facoltà di pedagogia (quella che il fratello non aveva completato ed era alla ricerca di un posto). Ubbidiente al consiglio del fratello, l'indomani bussò alla porta della direzione. Si vide comparire davanti una donna lunga e ossuta con i capelli neri e grassi come quelli delle zingare, occhi neri e una nera peluria sotto il naso. La sua bruttezza lo liberò dalla tremarella che, nella sua giovinezza, ancora gli metteva addosso la bellezza femminile e riuscì a parlarle in tono rilassato, con tutta l'amabilità possibile, se non addirittura con galanteria.
La direttrice accolse questo tono con evidente compiacimento, e affermò più volte, con un'esaltazione chiaramente percepibile: «Da noi c'e bisogno di giovani». Gli promise che l'avrebbe aiutato.

E così Eduard era diventato insegnante in una cittadina boema. Il fatto non gli procurava né gioia né dispiacere. Cercava sempre di distinguere tra cose serie e non serie, e la sua carriera di insegnante veniva da lui inserita nella categoria del non serio.

Non che l'insegnamento non fosse una cosa seria di per sé (e comunque lui ci teneva, sapendo di non avere altro di cui vivere), ma lo considerava non serio in relazione a se stesso. Non era stato lui a sceglierlo. L'avevano scelto per lui la domanda sociale, i giudizi della sezione quadri, i risultati della scuola media superiore, gli esami di ammissione all'università.

L'azione combinata di tutte queste forze l'aveva infine rovesciato (come una gru rovescia un sacco su un camion) dal liceo alla facoltà di pedagogia. C'era andato di malavoglia (su di essa c'era il marchio superstizioso dell'insuccesso di suo fratello), ma alla fine si era rassegnato. Aveva però capito che il lavoro avrebbe fatto parte delle cose casuali della sua vita. Che gli sarebbe stato incollato addosso come una barba finta che suscita ilarità .

Se però l'obbligo è qualcosa di non serio (che suscita ilarità), forse sarà invece serio ciò che è facoltativo: nella sua nuova sede di lavoro Eduard trovò subito una ragazza che gli parve bella, e cominciò a dedicarsi a lei con una serietà quasi sincera. Si chiamava Alice e, come aveva potuto constatare con rammarico fin dai loro primi incontri, era estremamente riservata e virtuosa.

Più volte, durante le loro passeggiate serali, aveva cercato di passarle un braccio intorno alla schiena in modo da poterle sfiorare da dietro l'orlo del seno destro, e tutte le volte lei gli aveva preso la mano e gliel'aveva tolta. Un giorno che lui aveva ripetuto nuovamente il suo tentativo e lei gli aveva (nuovamente) tolto la mano, Alice si fermò e disse: «Tu credi in Dio?».
Con le sue orecchie sensibili Eduard sentì in quella domanda un'energia nascosta e dimenticò immediatamente il seno.
«Ci credi?» ripeté Alice, ed Eduard non osava rispondere.

Non vogliamogliene per questo non coraggio di dire la verità; nel nuovo posto di lavoro si sentiva abbandonato e Alice gli piaceva troppo per voler rischiare di perderla a causa di una sola risposta.

«E tu?» le chiese per guadagnar tempo.

«Io sì» disse Alice, e di nuovo insisté perché lui rispondesse.

Fino ad allora non gli era mai venuto in mente di credere in Dio. Capiva perciò di non doverlo confessare, anzi, adesso doveva approfittare della situazione, e fare della fede in Dio un bel cavallo di legno dentro le cui viscere, secondo il modello classico, sarebbe potuto scivolare inosservato nell'intimo della ragazza. Solo che Eduard non era capace di dire ad Alice semplicemente sì, credo in Dio; non era affatto un cinico e si vergognava a mentire; la volgare linearità della menzogna gli ripugnava; se la menzogna era proprio necessaria, lui voleva tenersi quanto più vicino possibile alla verità. Rispose perciò con voce estremamente pensierosa:

«Alice, non so neanch'io cosa dirti. Certo, credo in Dio. Ma...» fece una pausa e Alice lo guardò con stupore. «Ma voglio parlare con te in tutta sincerità. Posso parlarti con sincerità?».

«Devi farlo» disse Alice. «Altrimenti non avrebbe senso stare insieme».

«Davvero?»

«Davvero» disse Alice.

«Talvolta vengo assalito dai dubbi» disse Eduard a voce bassa. «Talvolta dubito della sua esistenza».

«Ma come puoi dubitarne!» disse Alice quasi gridando.

Eduard tacque e, dopo una pausa di riflessione, gli venne in mente il ben noto pensiero: «Quando vedo tutto il male intorno a me, spesso mi domando com'è¨ possibile che Dio permetta tutto ciò».
C'era così tanta tristezza nella sua voce, che Alice gli prese una mano: «Sì, di male al mondo ce n'è davvero tanto. Lo so fin troppo bene. Ma proprio per questo devi credere in Dio. Senza di lui tutta questa sofferenza sarebbe inutile. Nulla avrebbe senso. E io non riuscirei proprio a vivere».

«Forse hai ragione» disse Eduard sovrappensiero, e la domenica andò con lei in chiesa. Intinse le dita nell'acquasantiera e si fece il segno della croce. Poi ci fu la messa e si cantò, e lui cantò insieme con gli altri un canto religioso di cui conosceva la melodia ma non il testo. Invece delle parole prescritte, prendeva delle vocali a caso e attaccava a cantare sempre una frazione di secondo dopo gli altri, perché anche la melodia la conosceva vagamente. In compenso, non appena era sicuro che la tonalità era giusta, lasciava che la voce si effondesse a piena gola, rendendosi conto per la prima volta in vita sua di avere una bella voce di basso.

Poi tutti si misero a recitare il Padre Nostro e alcune vecchie signore si inginocchiarono. Non riuscì a resistere alla tentazione e si inginocchiò anche lui sul pavimento di pietra. Con ampi movimenti del braccio si faceva il segno della croce, provando la fantastica sensazione di poter fare qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua, qualcosa che non poteva fare né in classe, né in strada, né da nessuna parte. Si sentì meravigliosamente libero.

Quando tutto finì, Alice lo guardò con occhi raggianti: «Puoi ancora dire che dubiti di lui?».

«No» disse Eduard.

E Alice disse: «Vorrei insegnarti ad amarlo come l'amo io».

Erano fermi sull'ampia scalinata della chiesa ed Eduard rideva dentro di sé. Sfortunatamente, proprio in quell'istante passò lì accanto la direttrice e li vide.

Brutto affare. Dobbiamo infatti ricordare (per coloro ai quali forse sfugge lo sfondo storico del racconto) che a quel tempo le chiese non erano precisamente vietate alla gente, ma che frequentarle comportava pur sempre qualche rischio.
La cosa non è tanto difficile da capire. Coloro che hanno lottato per ciò che essi chiamano rivoluzione coltivano il grande orgoglio che ha nome: stare dalla parte giusta del fronte. Quando sono passati ormai dieci, dodici anni dalla rivoluzione (come nel caso del nostro racconto), la linea del fronte comincia a sfumare e, insieme con essa, anche la sua parte giusta. Non meraviglia che i vecchi partigiani della rivoluzione si sentissero ingannati e si affrettassero perciò a cercare dei fronti sostitutivi; grazie alla religione, essi (in quanto atei opposti ai credenti) potevano stare nuovamente dalla parte giusta in tutta la loro gioia, serbando in tal modo l'abituale e prezioso pathos della loro superiorità.

Ma, ad esser sinceri, quel fronte sostitutivo risultava molto utile anche agli altri, e non sarà forse prematuro svelare che Alice apparteneva proprio a questa seconda categoria. Così come la direttrice voleva stare dalla parte giusta, Alice voleva stare dalla parte opposta. Nei giorni della rivoluzione, infatti, il negozio del padre di Alice era stato nazionalizzato e Alice odiava i responsabili di un simile atto. Ma come poteva mostrare il proprio odio? Poteva forse prendere un coltello e vendicare il padre? In Boemia non si fa così. Alice aveva una possibilità migliore per manifestare la propria opposizione: cominciò a credere in Dio.
In questo mondo, il Signore Iddio veniva in aiuto a entrambe le parti (che altrimenti avrebbero quasi perso la ragione vitale della loro divisione) e, grazie a lui, Eduard si venne a trovare tra due fuochi.

Quando, il lunedì mattina, nella sala dei professori Eduard fu avvicinato dalla direttrice, si sentì molto a disagio. Non poteva, infatti, in nessun modo appellarsi all'atmosfera amichevole della loro prima conversazione, perché da allora (per sua ingenuità o per sua negligenza) non aveva mai più intrattenuto conversazioni galanti con lei. Per questo la direttrice ebbe tutto il diritto di rivolgergli la parola con un sorriso ostentatamente freddo:
«Ieri ci siamo visti, eh?»
«Ci siamo visti, sì» disse Eduard.
«Non capisco come un giovane possa andare in chiesa». Eduard alzò imbarazzato le spalle e la direttrice scosse la testa: «Un giovane!».
«Ero là per guardare l'interno barocco della chiesa» disse Eduard per giustificarsi.
«Ah, è così» disse ironicamente la direttrice. «Non sapevo di questi suoi interessi artistici».

La conversazione non piacque affatto affatto ad Eduard. Si ricordò di come il fratello avesse girato tre volte attorno alla sua compagna di corso, scoppiando poi a ridere come un matto. Gli sembrò che le storie di famiglia si ripetessero ed ebbe paura. Il sabato si scusò telefonicamente con Alice di non poter andare in chiesa perché era raffreddato.

«Sei un po' delicatino» lo rimproverò Alice quando si incontrarono la settimana dopo, e ad Eduard sembrò di sentire dell'insensibilità nelle sue parole. Cominciò perciò a parlarle (in maniera vaga e misteriosa vergognandosi di ammettere la propria paura e le sue vere cause) delle varie ingiustizie di cui era vittima a scuola, e della tremenda direttrice che lo perseguitava senza motivo. Voleva suscitare in lei compassione, partecipazione affettuosa ma Alice disse: «Invece il mio capo è una donna proprio come si deve», e si mise a raccontare ridacchiando alcune storielle del suo lavoro. Eduard ascoltava la sua voce allegra e diventava sempre più cupo.

Signore e signori, furono settimane di tormenti! Eduard aveva un desiderio infernale di Alice. Il suo corpo lo eccitava, e proprio quel corpo gli era assolutamente inaccessibile. Anche lo scenario dei loro incontri era tormentoso; o girovagavano insieme una o due ore per le strade buie, o andavano al cinema; la monotonia e le insignificanti possibilità erotiche delle due varianti (altre non ne esistevano) suggerirono a Eduard l'idea che forse con Alice avrebbe raggiunto risultati più consistenti se avesse potuto incontrarla in un ambiente diverso.

Un giorno le propose con aria innocente di andare a passare il sabato e la domenica in campagna dal fratello che aveva una casetta accanto al fiume in una valle boscosa. Le descrisse con entusiasmo le innocenti bellezze della natura, ma Alice (ingenua e fiduciosa in tutte le altre cose) capì in fretta dove egli volesse andare a parare e rifiutò risolutamente. Non era infatti soltanto Alice a rifiutare. Era, in persona (eternamente vigile e attento), il Dio di Alice.

Quel Dio era fatto di un'unica idea (non aveva altri desideri o altri pensieri): proibiva i rapporti extraconiugali. Era quindi un Dio abbastanza buffo, ma non dobbiamo per questo ridere di Alice. Dei dieci comandamenti trasmessi da Mosè all'umanità, ce n'erano ben nove che nella sua anima non correvano alcun pericolo, perché Alice non aveva nessuna voglia né di ammazzare, né di disonorare il padre, né di desiderare la donna d'altri; un solo comandamento era da lei sentito come non ovvio, e quindi come qualcosa di veramente difficile e impegnativo: si trattava del famoso sesto comandamento non fornicare.

Se lei voleva in qualche modo concretizzare, mostrare e dimostrare la propria fede religiosa, doveva concentrarsi appunto su quest'unico comandamento e trasformare in tal modo quel Dio vago, indefinito e astratto in un Dio perfettamente definito, comprensibile e concreto: il Dio della continenza. Ma, scusate, dov'è che inizia realmente la formazione? Ogni donna ne stabilisce i confini con criteri del tutto misteriosi. Alice permetteva abbastanza di buon grado a Eduard di baciarla, e dopo innumerevoli tentativi aveva anche acconsentito a farsi carezzare il seno, ma a metà del proprio corpo, diciamo all'altezza dell'ombelico, aveva tracciato una linea rigorosa e intransigente, al di sotto della quale si stendeva la terra dei sacri divieti, la terra delle proibizioni di Mosè e dell'ira del Signore.

Eduard cominciò a leggere la Bibbia e a studiare i testi teologici fondamentali; aveva deciso di affrontare Alice con le sue stesse armi.

«Alice cara,» le disse poi «se amiamo Dio, non esistono per noi proibizioni. Se noi desideriamo qualcosa, ciò avviene perché lui lo permette. Cristo voleva un'unica cosa: che noi ci lasciassimo guidare dall'amore».
«Sì» disse Alice «ma da un amore diverso da quello a cui pensi tu!».
«C'è un solo amore» disse Eduard.
«Ti farebbe comodo!» disse Alice. «Solo che Dio ha stabilito dei precisi comandamenti, e noi dobbiamo osservarli».
«Sì, il Dio dell'Antico Testamento» disse Eduard «non certo il Dio dei cristiani».
«Come sarebbe? Esiste un solo Dio» ribatté Alice.
«Sì,» disse Eduard «solo che gli ebrei dell'Antico Testamento lo concepivano in un modo, e noi in un altro. Prima della venuta di Cristo, l'uomo doveva innanzitutto osservare un certo sistema di leggi e comandamenti divini. Ciò che avveniva dentro l'individuo non era così importante. Invece Cristo considerava tutti questi divieti e questi precetti come qualcosa di esteriore. Per lui la cosa più importante era ciò che avveniva dentro l'individuo. Se l'uomo si lascerà guidare dal fervore del suo animo di credente, tutto ciò che farà sarà buono e piacerà a Dio. E per questo San Paolo disse: tutto è puro per i puri».

«Bisogna vedere se tu sei uno di quei puri». disse Alice.
«E sant'Agostino?» continuò Eduard «disse: Ama Dio e fa' ciò che vuoi! Capisci, Alice? Ama Dio e fa ciò che vuoi!»
«Ma ciò che vuoi tu non lo vorrò mai io» rispose Alice, ed Eduard capì che questa volta la sua offensiva teologica era totalmente fallita; disse perciò:
«Tu non mi ami»
«Ma sì che ti amo» disse Alice con una tremenda genericità. «E proprio per questo non voglio che facciamo qualcosa che non dobbiamo fare».

Come abbiamo già detto, furono settimane di tormenti. Un tormento reso ancora più acuto dal fatto che il desiderio che Eduard provava per Alice non era affatto solo il desiderio che un corpo prova per un altro corpo; anzi, quanto più veniva respinto dal corpo di Alice, tanto più Eduard diventava triste e nostalgico, e tanto più desiderava anche il suo cuore; ma né il corpo né il cuore di Alice volevano saperne nulla, entrambi ugualmente freddi, ugualmente chiusi in se stessi e soddisfatti della loro autarchia.

Quello che più irritava Eduard in Alice era proprio l'imperturbabile misuratezza del suo comportamento. Pur essendo in generale un giovane abbastanza posato, Eduard cominciò a desiderare qualche gesto estremo che riuscisse a scuotere Alice dalla sua imperturbabilità . E poiché era troppo rischioso provocarla con eccessi blasfemi o cinici (verso i quali era spinto dalla sua natura), fu costretto a scegliere eccessi che ne erano l'esatto contrario (e di conseguenza molto più faticosi), che derivassero dall'atteggiamento stesso di Alice, portandolo però a un grado tale da farle provare vergogna.

Detto in maniera più comprensibile: Eduard cominciò a esagerare la propria religiosità. Non saltava neanche una visita in chiesa (il desiderio di Alice era più forte della paura dei fastidi) e là si comportava con eccentrica umiltà: non perdeva un'occasione per inginocchiarsi, mentre Alice accanto a lui pregava e si faceva il segno della croce in piedi per paura di rompersi le calze.

Un giorno Eduard le rimproverò la tiepidezza della sua fede. Le ricordò le parole di Gesù: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli». Le rimproverò la sua fede formale, esteriore, superficiale. Le rimproverò la sua vita comoda. Le rimproverò di essere troppo soddisfatta di sé. Le rimproverò di non badare a nessuno all'infuori di se stessa.

E mentre le parlava in quel modo (Alice non era preparata al suo attacco e si difendeva debolmente), vide davanti a sé una croce; una vecchia croce di metallo, abbandonata, con un Cristo di latta arrugginito, all'angolo della strada. Con gesto teatrale tolse il braccio da sotto il braccio di Alice, si fermò e (come protesta contro il suo cuore indifferente e come annuncio della nuova offensiva) si fece il segno della croce con caparbia ostentazione. Ma non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto dell'effetto ottenuto su Alice, perché in quell'istante, sul lato opposto della strada, scorse la bidella. Lo stava guardando. Eduard capì di essere perduto.

Il suo sospetto fu confermato quando, due giorni dopo, la bidella lo fermò in corridoio e gli annunciò a voce ben alta che l'indomani alle dodici doveva presentarsi in direzione: «Abbiamo bisogno di parlarti, compagno».


Eduard fu preso dall'angoscia. La sera si incontrò con Alice per passare, come sempre, una o due ore a girovagare per le strade, ma ormai aveva rinunciato al suo fervore religioso. Era abbattuto e desiderava confidare ad Alice ciò che gli era capitato; ma non ne aveva il coraggio, perché sapeva che, la mattina dopo, per salvare quel lavoro non amato (ma necessario), era disposto a tradire il Signore Iddio senza la minima esitazione. Preferì perciò non far parola dell'infausta convocazione, e così non ricevette nessun conforto. L'indomani entrò nell'ufficio della direttrice con la sensazione di essere totalmente so!o.

Nella stanza c'erano ad attenderlo quattro giudici: la direttrice, la bidella, un collega di Eduard (piccolo e occhialuto) e un signore sconosciuto (con i capelli grigi) che gli altri chiamavano compagno ispettore. La direttrice invitò Eduard a sedersi e gli disse che era stato chiamato là per una conversazione del tutto amichevole e confidenziale perché, diceva, erano tutti preoccupati del modo in cui Eduard si comportava fuori della scuola.

Dicendo queste parole, guardò l'ispettore, e questi fece un cenno di assenso con il capo, la direttrice spostò poi lo sguardo sull'insegnante occhialuto, che l'aveva guardata con attenzione tutto il tempo e che ora, cogliendone l'occhiata, si ricollegò al suo discorso e parlò di come noi vogliamo educare una gioventù sana e senza pregiudizi, di come tutta la responsabilità di questa gioventù sia nostra, perché siamo noi (noi insegnanti) a servir loro da esempio; proprio per questo, disse, non possiamo tollerare tra le nostre mura i baciapile; sviluppò a lungo questa idea e alla fine dichiarò che il comportamento di Eduard era una vergogna per l'intero istituto.

Solo pochi minuti prima, Eduard era ancora convinto che avrebbe rinnegato quel suo Dio acquistato da poco, e avrebbe confessato che la visita in chiesa e il segno della croce in pubblico non erano che buffonate. Adesso, però, faccia a faccia all'improvviso con la situazione reale, sentì di non poterlo fare; di non poter dire a quelle quattro persone, così serie e appassionate, che stavano appassionandosi a un malinteso, a una sciocchezza; capiva che in tal modo si sarebbe preso involontariamente gioco di loro; e si rendeva anche conto che in quel momento tutti si aspettavano da lui solo scuse e giustificazioni, ed erano già pronti a rifiutarle; capì (di colpo, perché non c'era tempo per le lunghe riflessioni) che in quel momento la cosa più importante era rimanere vicini alla verità , o meglio, vicini all'idea che essi se n'erano fatta; se voleva riuscire in qualche misura a correggere quell'idea, doveva in qualche misura andar loro incontro. Disse perciò:
«Compagni, posso essere sincero?»

«Naturalmente» disse la direttrice. «È qui per questo».

«E non vi arrabbierete?»

«Su parli!» disse la direttrice.

«Bene, allora ve lo confesso» disse Eduard. «Io credo davvero in Dio».

Guardò i suoi giudici e gli sembrò che tutti avessero tirato un respiro di sollievo, solo la bidella lo assalì dicendo: «Compagno, nella nostra epoca? Nella nostra epoca?».

Eduard continuò: «Lo sapevo che vi sareste arrabbiati se vi dicevo la verità. Ma io non so mentire. Non chiedetemi di ingannarvi».

La direttrice disse (con dolcezza): «Nessuno vuole che lei menta. Fa bene a dire la verità . Mi dica soltanto, per cortesia, come può credere lei in Dio, un giovane!».

«Oggi che andiamo sulla luna!» disse l'insegnante.

«Non posso farci nulla» disse Eduard «Io non voglio credere in Dio, davvero, non voglio».

«Come sarebbe che non vuole crederci, se invece ci crede?» si intromise (con tono straordinariamente amabile) il signore dai capelli grigi.

«Non voglio credere, e credo» confessò di nuovo Eduard a bassa voce.

L'insegnante si mise a ridere: «Ma c'è una contraddizione!»

«Compagni, è come dico io» disse Eduard. «So bene che la fede in Dio ci allontana dalla realtà. Dove andrebbe a finire il socialismo se tutti credessero che il mondo è nelle mani di Dio? Nessuno farebbe più nulla e tutti si rimetterebbero a Dio».

«Proprio così» confermò la direttrice.

«Ancora nessuno ha mai dimostrato l'esistenza di Dio» dichiarò l'insegnante occhialuto.

Eduard continuò: «La storia dell'umanità si differenzia dalla sua preistoria per il fatto che gli uomini hanno preso essi stessi in mano il loro destino e non hanno bisogno di Dio».

«La fede in Dio porta al fatalismo» disse la direttrice.

«La fede in Dio appartiene al Medioevo» disse Eduard, e poi la direttrice aggiunse ancora qualcosa, qualcosa la disse l'insegnante, ancora qualcosa Eduard e qualcos'altro l'ispettore, completandosi tutti in un'armonica concordia, fino a che l'insegnante occhialuto non sbottò, interrompendo Eduard:

«Ma allora perché ti fai il segno della croce in strada, se tutte queste cose le sai?».

Eduard lo fissò con uno sguardo immensamente triste e disse: «Perché credo in Dio».

«Ma c'è una contraddizione!» ripetè l'insegnante con gioia.

«Sì» ammise Eduard «c'è la contraddizione tra la conoscenza e la fede. Io riconosco che la fede in Dio ci porta all'oscurantismo. lo riconosco che sarebbe meglio se non ci fosse. Ma se io qui dentro... » e col dito indicava il cuore «sento che c'è! Vi prego, compagni, vi sto dicendo le cose come stanno, è meglio che ve lo confessi, perché non voglio essere un ipocrita, io voglio che voi mi conosciate come sono realmente», e abbassò la testa.

L'insegnante non vedeva al di là del proprio naso; non sapeva che anche il più severo rivoluzionaro considera la violenza solo come un male necessario, mentre il vero bene della rivoluzione è costituito per lui dalla rieducazione. Lui stesso, che si era convertito al credo rivoluzionario nel giro di una notte, non godeva di troppa stima da parte della direttrice, e non immaginava che in quel momento Eduard, che si era messo a disposizione dei propri giudici come oggetto di rieducazione difficile ma malleabile, valeva mille volte più di lui. E non immaginandoselo, assalì brutalmente Eduard affermando che le persone come lui, che non sanno separarsi dalla fede medioevale, appartengono al Medioevo e devono abbandonare la scuola di oggi.

La direttrice lo lasciò finire e poi pronunciò il proprio ammonimento: «Non mi piace che si taglino le teste. Il compagno è stato sincero e ci ha detto le cose come stanno. Dobbiamo saperlo apprezzare». Si rivolse poi a Eduard: «Naturalmente, i compagni hanno ragione quando affermano che i baciapile non possono educare la nostra gioventù. Dica allora lei stesso cosa propone».

«Non lo so, compagni» disse Eduard con aria infelice.

«Io la penso così» disse l'ispettore. «La lotta tra il vecchio e il nuovo non ha luogo solo tra le classi, ma anche dentro ogni singolo individuo. A una lotta simile assistiamo anche nel compagno qui davanti. Egli con la ragione sa, ma il sentimento lo trascina indietro. In questa lotta, è vostro compito cercare di aiutarlo affinché la sua ragione vinca».
La direttrice annuì. E aggiunse: «Me ne occuperò io stessa».

Eduard aveva quindi evitato il pericolo. più immediato; il destino della sua esistenza di insegnante si trovava esclusivamente nelle mani della dlirettrice, cosa di cui prese atto con una certa soddisfazione: si ricordò infatti della vecchia osservazione del fratello che la direttrice aveva sempre avuto un debole per i ragazzini e, con tutta l'instabilità della sua sicurezza giovanile (ora avvilita, ora esagerata), decise di vincere l'incontro insinuandosi nelle grazie della sua dominatrice proprio come uomo.

Quando, come convenuto, qualche giorno dopo andò a farle visita in direzione, cercò di assumere un tono leggero e approfittò di ogni occasione per infilare nelle sue parole osservazioni più familiari, leggere adulazioni per sottolineare con discreta ambiguità la propria situazione di uomo in mano a una donna. Ma non gli fu concesso di stabilire il tono della conversazione. La direttrice gli parlava con gentilezza, ma in modo molto riservato; gli chiese quali fossero le sue letture, elencò i titoli di alcuni libri e gli consigliò di leggerli, volendo evidentemente inaugurare un lavoro a lungo termine sulla sua mente. Il loro breve incontro terminò con un invito ad andare a trovarla a casa.

Grazie alla riservatezza della direttrice, la sicurezza di Eduard si sgonfiò nuovamente, per cui egli entrò nell'appartamentino di lei con umiltà e senza alcun intento di imporsi ricorrendo al suo fascino maschile. Lei lo fece sedere in poltrona e assunse un tono molto amichevole; gli chiese cosa potesse offrirgli: un caffé? Lui disse di no. Allora qualcosa di alcolico? Fu quasi in imbarazzo: «Se ha un cognac...» disse, subito temendo di averla sparata grossa.

Ma la direttrice disse gentilmente: «No, di cognac non ne ho, ho solo un po, di vino» e portò una bottiglia semivuota che servì appena a riempire due bicchieri.

Poi disse che Eduard non doveva guardarla come un'inquisitrice; perché ognuno ha tutto il diritto di professare nella propria vita la fede che reputa giusta. Certo (aggiunse immediatamente) tutt'altra cosa e se poi costui sia o non sia adatto a fare l'insegnante; per questo, diceva, avevano dovuto (benché a malincuore) convocare Eduard per scambiare quattro chiacchiere con lui, ed erano stati (almeno lei e l'ispettore) molto soddisfatti di come Eduard aveva parlato loro apertamente e senza negare nulla.

Disse poi che aveva parlato ancora molto a lungo di Eduard con l'ispettore, e che avevano deciso che dopo sei mesi l'avrebbero nuovamente chiamato per una conversazione; fino ad allora la direttrice con la sua influenza avrebbe dovuto essergli d'aiuto nella sua evoluzione. E aveva nuovamente sottolineato il fatto che lei voleva solo aiutarlo amichevolmente, che lei non era né un inquisitore né un poliziotto. Ricordò poi l'insegnante che aveva assalito Eduard così aspramente, e disse: «Anche lui è nei pasticci, e sarebbe prontissimo a mandare la gente al rogo. E poi la bidella continua a dire in giro che lei è un insolente e che insiste a fare ostinatamente di testa sua. Non si riesce a dissuaderla dall'idea che lei dovrebbe essere cacciato dalla scuola. Io, naturalmente, non sono d'accordo con la bidella, ma non si può nemmeno meravigliarsi troppo di lei. Neanch'io sarei contenta se l'insegnante dei miei figli fosse uno che si fa il segno della croce per strada».

In questo modo la direttrice aveva presentato a Eduard, in un unico fiotto di frasi, le seducenti possibilità della sua misericordia, ma anche le minacciose possibilità del suo rigore, e per dimostrare che il loro incontro era davvero amichevole passò poi ad altri temi: parlò dei libri, condusse Eduard davanti alla libreria, si sciolse tutta parlando dell'Anima incantata di Rolland, e si arrabbiò con lui perché non l'aveva letto.

Gli chiese poi come si trovasse realmente a scuola e, dopo la sua risposta di cortesia, si mise a parlare a lungo: disse che era grata al destino per il`suo lavoro, che lavorare nella scuola le piaceva perché, educando i bambini, era in continuo e concreto contatto col futuro; e che soltanto il futuro alla fine avrebbe potuto giustificare tutta la sofferenza che, diceva («sì, dobbiamo riconoscerlo»), vediamo dappertutto. «Se non sapessi di vivere per qualcosa che supera la mia semplice vita, penso che non potrei vivere».

All'improvviso, quelle parole suonarono molto sincere e non era chiaro se la direttrice volesse confessarsi o dare l'avvio all'attesa polemica ideologica sul senso della vita; Eduard decise che era meglio intenderle nel loro carattere intimo e chiese perciò, con voce bassa e discreta:

«E la sua vita, in sé?»

«La mia vita?» ripetè lei.

«Sì, la sua vita. Non potrebbe darle soddisfazioni?».

Sul viso della direttrice apparve un sorriso amaro e in quell'istante a Eduard quasi dispiacque per lei. Era di un'orripilanza commovente: i capelli neri le ombreggiavano il lungo viso ossuto, e i neri peli sotto al naso acquistavano l'espressività di un paio di baffetti. Eduard si immaginò di colpo tutto il dolore della sua vita; notò i suoi tratti zingareschi che ne tradivano la passionalità , e la sua bruttezza che tradiva invece l'impossibilità di vivere quella passionalità; se la immaginò appassionatamente trasformata nella statua vivente del dolore per la morte di Stalin, se la immaginò appassionatamente seduta in centinaia di migliaia di riunioni, appassionatamente in lotta contro il povero Gesù, e capì che quelli non erano che i tristi canali sostitutivi del suo desiderio che non poteva scorrere là dove voleva.

Eduard era giovane e la sua pietà non era ancora logora. Guardò la direttrice con comprensione. Lei, invece, come se si vergognasse per quell'istante di involontario silenzio, donò alla sua voce un tono disinvolto e continuò:
«Non è qui la questione, Eduard... L'uomo non vive solo per se stesso. C'è sempre qualcosa per cui vivere». Lo guardò ancora più profondamente negli occhi: «E il problema è proprio questo qualcosa. Per qualcosa di reale o per qualcosa di immaginario? Dio rappresenta una bella invenzione. Mentre l'avvenire della gente, Eduard, rappresenta la realtà. Per questa causa io ho vissuto, a questa causa ho sacrificato tutto».

Anche queste frasi le aveva dette con una tale partecipazione che Eduard non cessò di provare per lei quell'improvvisa comprensione umana risvegliatasi un istante prima; gli parve sciocco mentire apertamente al suo prossimo, e gli sembrò che l'intimità raggiunta dal loro dialogo gli offrisse l'occasione di abbandonare finalmente quell'ignobile (e del resto anche faticoso) gioco al credente:

«Ma io sono completamente d'accordo con lei» la rassicurò in fretta «anch'io do la precedenza alla realtà. Non prenda tanto sul serio questa mia fede».

Si rese subito conto che non bisogna mai lasciarsi andare a questi avventati attacchi di sentimentalismo. La direttrice lo guardò stupita e disse con tono molto freddo: «Non finga. La sua sincerità mi è piaciuta. Non si trasformi, adesso, nella persona che non è».

No, a Eduard non era permesso spogliarsi del costume da religioso che un giorno aveva indossato; vi si rassegnò velocemente e cercò di rimediare alla cattiva impressione data: «Ma no, io non volevo rinunciare alle mie responsabilità. Certo, io credo in Dio, non potrei mai negarlo. Io volevo solo dire che credo ugualmente nell'avvenire dell'umanità, nel progresso e in tutte queste cose, perché, se non ci credessi, che scopo avrebbe tutta la mia attività di insegnante, che scopo avrebbe che vengano al mondo i bambini, che scopo avrebbe tutta la nostra vita? Io pensavo appunto che anche Dio vuole che la società progredisca e migliori. Pensavo appunto che l'uomo può credere sia in Dio sia nel comunismo, che è possibile unire le due cose».

«No» rise la direttrice con materno autoritarismo «sono due cose che non si possono unire».

«Lo so» disse Eduard con tristezza. «Non se la prenda con me».

«Non me la prendo. Lei è ancora giovane e difende con caparbietà quello in cui crede. Nessuno la può capire quanto me. Perché anch'io sono stata giovane allo stesso modo. Io so che costa la giovinezza. E mi piace la giovinezza che è in lei. Lei mi è simpatico».

Si era arrivati finalmente al punto. Non un attimo prima e non un attimo dopo, ma proprio adesso, precisamente al momento giusto. Non era stato lui a stabilire il momento, verrebbe più da dire che quel momento aveva semplicemente approfittato di lui per realizzarsi. Quando la direttrice disse che Eduard le era simpatico, questi rispose, senza calcare troppo le parole:

«Anche lei mi è simpatica».

«Davvero?».

«Davvero».

«La prego. Io, una donna vecchia... » obiettò la direttrice.

«Non è vero» fu costretto a dire Eduard.

«Ma sì» disse la direttrice.

«Lei non è affatto vecchia, è un'assurdità» fu costretto a dire lui con estrema risolutezza.

«Crede?».

«Si da il caso che lei mi piaccia molto».

«Non dica bugie. Lo sa che non deve dire bugie».

«Non dico bugie. Lei è bella».

«Bella?» disse la direttrice con aria incredula.

«Sì, bella» disse Eduard, e avendo paura della palese inattendibilità della propria affermazione, si affrettò a cercare argomenti a sostegno:

«Le brune come lei mi piacciono da impazzire!»

«Le piacciono le brune?» chiese la direttrice.

«Da impazzire» disse Eduard.

«E perché da quando è a scuola, non si è mai fatto vedere da me? Avevo l'impressione che cercasse di evitarmi».

«Mi vergognavo» disse Eduard. «Tutti avrebbero detto che facevo il leccapiedi. Nessuno avrebbe creduto che venivo a trovarla solo perché lei mi piace».

«Adesso però non deve vergognarsi» disse la direttrice. «Adesso è stato stabilito che lei deve incontrarmi di tanto in tanto».

Lo guardava negli occhi con le sue grandi iridi brune (dobbiamo riconoscere che, prese in sé, erano belle) e, al momento dei saluti, gli fece una leggera carezza sulla mano, per cui quel folle se ne andò via con un'esaltante sensazione di vittoria.

Eduard era convinto che quella spiacevole faccenda fosse ormai decisa a suo vantaggio, e la domenica successiva accompagnò Alice in chiesa con sfrontata disinvoltura; non solo, ma vi andò di nuovo pienamente sicuro di se, perché (sebbene ciò desti in noi un sorriso di compassione) nei suoi ricordi tutta la visita alla direttrice era sentita come una prova lampante del suo fascino maschile.
Del resto, proprio quella domenica in chiesa si accorse che Alice era un po' diversa: appena si erano visti, lo aveva preso subito a braccetto ed era rimasta così anche in chiesa; mentre le altre volte si comportava con modestia e discrezione, adesso invece continuava a guardarsi intorno e salutò con un sorridente cenno del capo almeno una decina di conoscenti.
Era strano ed Eduard non ci si raccapezzava.

Due giorni dopo, mentre passeggiavano insieme per le strade buie, Eduard constatò sbalordito che i suoi baci, un tempo così spiacevolmente banali, si erano fatti umidi, caldi, appassionati. In un attimo di sosta sotto un lampione, si accorse che lo fissavano due occhi innamorati.

«Tanto perché tu lo sappia, ti amo» gli disse Alice; di punto in bianco, coprendogli immediatamente la bocca con la mano. «No, no, non dire nulla, mi vergogno, non voglio sentir nulla».

E proseguirono ancora per un pezzetto, e si fermarono, e Alice disse: «Adesso capisco tutto. Adesso capisco perché mi rimproveravi di essere troppo comoda nella mia fede».
Eduard invece non capiva nulla, e di conseguenza non apriva bocca; dopo che ebbero proseguito ancora per un pezzetto, Alice disse:

«E tu non mi hai detto nulla! Perché non mi hai detto nulla?»

«E cosa avrei dovuto dirti?» chiese Eduard.

«Sì tu sei fatto così» disse Alice con tranquillo entusiasmo. «Gli altri si sarebbero dati delle arie, e tu invece taci. Ma è proprio per questo che ti amo».

Eduard cominciò a intuire a cosa si stesse riferendo, ma domandò ugualmente: «Di che parli?»

«Di quello che ti è successo».

«E da chi l'hai saputo?».

«Ma scusa! Lo sanno tutti. Ti hanno convocato, ti hanno minacciato e tu ti sei preso apertamente gioco di loro. Non hai negato nulla. Ti ammirano tutti».

«Ma io non avevo detto niente a nessuno».

«Non essere ingenuo! Una cosa del genere gira. Non è certo una sciocchezza. Dove lo trovi, oggi, uno con un po' di coraggio?».

Eduard sapeva che in una piccola città ogni avvenimento si trasforma in leggenda, ma non immaginava che anche le sue storie insignificanti, di cui non aveva mai sopravvalutato l'importanza, possedessero tale capacità di mutarsi in leggenda; non si era reso sufficientemente conto di quanto la sua storia tornasse utile ai suoi connazionali i quali, comè noto, hanno un debole non tanto per gli eroi drammatici (quelli che lottano e vincono) quanto invece proprio per i martiri, perché questi li confermano con tranquillità, nella loro dolce inerzia, rassicurandoli del fatto che la vita offre solo due alternative: o la rovina finale o l'ubbidienza.

Nessuno dubitava del fatto per Eduard si prospettasse la rovina, e tutti avevano trasmesso la notizia con ammirazione e con un certo piacere, fino al momento in cui Eduard, grazie ad Alice, non si era trovato davanti alla splendida immagine della propria crocifissione. Prese la cosa con sangue freddo e disse:

«Ma è naturale che non abbia negato nulla. Chiunque avrebbe agito allo stesso modo».

«Chiunque?» sbottò Alice. «Guarda intorno a te il comportamento di tutti! Come sono vigliacchi! Rinnegherebbero la propria madre!».

Eduard taceva e taceva anche Alice. Camminavano tenedosi per mano. Poi Alice disse sottovoce:

«Per te farei tutto».

Non aveva mai detto a Eduard una frase simile; una frase simile rappresentava un regalo inatteso. Certo, Eduard sapeva bene che si trattava di un regalo immeritato, ma si disse che, se il destino gli rifiutava i regali meritati, lui aveva tutto il diritto di tenersi quelli immeritati, per cui disse:

«Nessuno può più far nulla per me».

«In che senso?» disse Alice piano.

«Mi sbatteranno fuori dalla scuola e quelli che oggi parlano di me come un eroe non muoveranno un dito per aiutarmi. Ho un'unica certezza. Che rimarrò totalmente solo».

«Non resterai solo» fece Alice scuotendo il capo.

«E invece sì» disse Eduard.

«Non resterai solo!» gridò quasi Alice.

«Tutti mi abbandoneranno».

«Io non ti abbandonerò mai» disse Alice.

«Mi abbandonerai» disse Eduard con tristezza.

«Non ti abbandonerò» disse Alice.

«No, Alice» disse Eduard «tu non mi ami. Tu non mi hai mai amato».

«Non è vero» disse Alice sottovoce, ed Eduard si accorse con soddisfazione che aveva gli occhi umidi.

«È così, Alice, queste cose si sentono. Tu sei sempre stata molto fredda con me. Non è questo il modo in cui si comporta una donna innamorata. Io lo so bene. E adesso hai pietà di me, perché sai che mi vogliono distruggere. Ma non mi ami, e io non voglio che tu cerchi di convincerti del contrario».

Continuarono a camminare in silenzio e tenendosi per mano. Alice piangeva sommessamente, ma all'improvviso si fermò e disse singhiozzancio: «No, non è vero, non puoi crederlo, non è vero».

«E invece sì» disse Eduard, e dato che Alice non smetteva di piangere, le propose di andare insieme in campagna il sabato successivo. Nella bella vallata accanto al fiume c'era la casetta del fratello dove avrebbero potuto star soli.
Alice, col viso bagnato dalle lacrime, annuì in silenzio.

Questo accadeva il martedì, e quando giovedì Eduard fu nuovamente invitato nell'appartamento della direttrice, vi entrò con allegra sicurezza, non dubitando affatto che, col proprio fascino, avrebbe definitivamente trasformato la questione della chiesa in una semplice nuvoletta di fumo, in un semplice nulla.

Ma vanno così le cose della vita: uno pensa di recitare la sua parte in uno spettacolo, e nemmeno si immagina che sul palcoscenico nel frattempo, di soppiatto, hanno cambiato lo scenario, e senza saperlo si ritrova nel bel mezzo di uno spettacolo completamente diverso.

Era di nuovo seduto in poltrona di fronte alla direttrice; tra loro c'era un tavolino sul quale era posata una bottiglia di cognac con accanto, di qua e di là , due bicchierini. E proprio quella bottiglia di cognac era il nuovo elemento scenico dal quale un uomo perspicace e d'animo tranquillo avrebbe dovuto intuire che ormai non era più in questione la faccenda della chiesa. Ma l'innocente Eduard era a tal punto pieno di sé che all'inizio non si accorse di nulla. Partecipò molto allegramente alla conversazione preliminare (dal contenuto vago e generico), bevve il bicchierino offertogli e si annoiò molto candidamente.

Dopo mezz'ora o un'ora, la direttrice passò con discrezione ad argomenti più personali; si mise a parlare di sé, e dalle sue parole doveva sorgere davanti a Eduard la donna che lei voleva apparire: una giudiziosa signora di mezza età , non troppo felice, ma dignitosamente soddisfatta del suo destino, una donna che non rimpiange nulla e che si fa addirittura un vanto di non essere sposata, perché solo in questo modo può pienamente assaporare il gusto maturo della propria indipendenza e la gioia dell'intimità offertale dal suo bell'appartamento dove si sente a suo agio e dove forse anche Eduard non si trova male.

«No, è bello qui» disse Eduard, e lo disse con sgomento perché proprio nello stesso istante quel posto aveva smesso di apparirgli bello. La bottiglia di cognac (che aveva chiesto avventatamente durante il loro ultimo incontro e che adesso era accorsa sul tavolo con così minacciosa compiacenza), le quattro pareti dell'appartamentino (tutt'intorno a uno spazio che pareva diventare sempre più stretto, sempre più chiuso), il monologo della direttrice (che si restringeva ad argomenti sempre più personali), lo sguardo di lei (pericolosamente fisso), tutto ciò fece sì che il cambiamento di spettacolo cominciasse alla fine a divenirgli chiaro; capì di essersi messo in una situazione dallo sviluppo irrevocabilmente prestabilito; si rese conto che ciò che minacciava la sua esistenza a scuola non era l'avversione della direttrice nei suoi confronti, ma il suo esatto contrario: la propria avversione fisica verso quella donna magra dalla leggera peluria sotto il naso e che lo incoraggiava a bere. L'angoscia gli strinse la gola.

Obbedì alla direttrice e bevve, ma la sua angoscia era adesso così forte che l'alcol non aveva alcun effetto su di lui. In compenso, dopo un paio di bicchierini la direttrice aveva del tutto oltrepassato l'abituale sobrietà , e le sue parole assumevano un'esaltazione quasi minacciosa. «Un'unica cosa le invidio» diceva. «Il fatto che lei è giovane. Lei non può ancora sapere cosa sia la disillusione, il disinganno. Lei vede ancora il mondo pieno di speranza e di bellezza».

Si sporse sul tavolino verso Eduard e in un silenzio malinconico con un sorriso spasmodicamente rigido, gli piantò addosso i suoi occhi terribilmente grandi, mentre lui si ripeteva che se non fosse riuscito a diventare un po' brillo, la serata sarebbe finita per lui con grande vergogna; si versò perciò un altro bicchierino di cognac e lo trangugiò rapidamente.

Intanto la direttrice continuava: «Ma io voglio vederlo così! Così come lo vede lei!». Si alzò dalla poltrona, gonfiò il torace e disse: «Non sono mica una donna noiosa! Vero?» e, aggirato il tavolino, prese la mano di Eduard: «Vero?».

«Sì» disse Eduard.

«Venga, balliamo» disse, gli lasciò la mano e si lanciò verso la manopola della radio, ruotandola fino a che non trovò un ballabile. Poi si piantò sorridendo davanti a Eduard.

Eduard si alzò, prese la direttrice e cominciò a condurla per la stanza al ritmo della musica. Di tanto in tanto la direttrice gli posava teneramente la testa sulla spalla, poi la sollevava bruscamente per guardarlo negli occhi, e dopo un po' si mise a canticchiare a mezza voce la melodia della radio. Eduard si sentiva così a disagio che più volte smise di ballare per bere qualcosa. Non c'era nulla che desiderasse quanto porre fine alla pena di quell'interminabile strascinamento di suole, ma al tempo stesso non c'era nulla che temesse di più, perché la tortura di ciò che ne sarebbe seguito gli pareva ancor più insopportabile. Continuò perciò a guidare per la stretta stanza la signora che non la smetteva di canticchiare, e intanto seguiva costantemente (e con angoscia) il desiderato effetto dell'alcol su di sé.
Quando alla fine gli sembrò di avere la mente abba stanza ottenebrata dall'alcol, con la mano destra strinse la direttrice al proprio corpo e le posò la mano sinistra sul seno.

Sì, aveva fatto proprio ciò di cui aveva avuto terrore per l'intera serata; avrebbe dato non so cosa per non doverlo fare, e se quindi l'aveva fatto, credetemi, era stato solo perché davvero aveva dovuto farlo: la situazione in cui si era messo fin dall'inizio della serata era infatti così autoritaria che, se era ancora possibile rallentare il corso degli eventi, non era affatto possibile fermarlo, e se Eduard aveva posato la mano sul seno della direttrice, non aveva fatto altro che ubbidire all'ordine di una necessità ineluttabile.

Le conseguenze del suo gesto superarono però ogni aspettativa. Come per effetto di una formula magica, la direttrice cominciò a contorcerglisi tra le braccia e incollò immediatamente sulla bocca di Eduard il suo peloso labbro superiore. Poi lo gettò sul divano e tra ansiti e contorsioni selvagge gli morse le labbra e la punta della lingua, il che procurò a Eduard un forte dolore. Poi gli si divincolò dalle braccia, disse «Aspetta!» e corse in bagno.

Eduard si toccò la lingua con un dito e si accorse che sanguinava leggermente. Quel morso gli aveva fatto così male che l'ubriachezza faticosamente raggiunta svanì e l'angoscia gli serrò nuovamente la gola al pensiero di ciò che l'attendeva. Dal bagno si udiva il forte gorgogliare e scorrer via dell'acqua. Prese in mano la bottiglia del cognac, l'avvicinò alla bocca e bevve a lungo.

Ma la direttrice era già comparsa sulla porta con indosso una camicia da notte di nylon trasparente (con un fitto ricamo sul seno) e si dirigeva lentamente verso Eduard. Lo abbracciò. Si allontanò poi di un passo e disse, con tono di rimprovero: «Perché sei vestito?».

Eduard si tolse la giacca e, guardando la direttrice (che teneva fissi su di lui i suoi grandi occhi), riusciva a pensare solo al fatto che, molto probabilmente, il suo corpo avrebbe sabotato gli sforzi della sua volontà . Volendo quindi in qualche modo risvegliare il proprio corpo, disse con voce incerta: «Si spogli completamente».

Con un brusco movimento, appassionatamente docile, la direttrice si tolse la camicia da notte, mettendo a nudo una bianca figura sottile al cui centro un ciuffo nero spiccava in malinconico abbandono. Gli si avvicinò lentamente ed Eduard si convinse con terrore di un fatto del resto già noto: il suo corpo era completamente bloccato dall'angoscia.

Signori, so bene che nel corso degli anni vi siete abituati alla saltuaria disubbidienza del vostro corpo e ciò non vi turba più. Cercate però di capire, Eduard a quel tempo era giovane! Il sabotaggio del suo corpo lo gettava ogni volta in un incredibile panico e lui lo viveva come un'irrimediabile vergogna, sia che avesse per testimone un bel viso o un viso così orripilante e comico come quello della direttrice.

Ma la direttrice era ormai a un passo ed Eduard, spaventato e non sapendo che fare, disse all'improvviso, senza nemmeno sapere come (era più frutto dell'ispirazione che di qualche subdolo ragionamento):

«No, no, Dio santo, no! No, è peccato, sarebbe peccato!», e fece un salto da una parte.

La direttrice gli si avvicinò ancora di più, borbottando a voce bassa:

«Ma quale peccato! Non c'è nessun peccato!».

Eduard si ritrasse dietro il tavolino tondo dove sedevano un attimo prima:

«No, non posso farlo, non posso!».

La direttrice spostò la poltrona che le ostruiva il cammino e proseguì verso Eduard, senza distogliere da lui i suoi grandi occhi neri:

«Non c'è nessun peccato! Non c'è nessun peccato!»

Eduard girò attorno al tavolino, e dietro non c'era ormai che il divano; la direttrice era a un solo passo da lui. Ora non aveva davvero più scampo, e fu forse proprio la disperazione, in quell'istante senza via d'uscita, a suggerirgli all'improvviso di ordinarle:

«Inginocchiati!».

Lei lo guardò senza capire, ma quando lui ripetè nuovamente, con voce ferma (benché disperata): «Inginocchiati!», lei cadde appassionatamente in ginocchio davanti a lui e gli abbracciò le gambe.

«Via quelle mani!» la sgridò. «Congiungile!».

Lei lo guardò di nuovo senza capire.

«Congiungile! Non hai sentito?».

Lei congiunse le mani.

«Prega!» le ordinò.

Aveva le mani giunte e lo guardava devotamente.

«Prega Dio perché ci perdoni!» le sibilò.

Aveva le mani giunte e lo fissava con i suoi grandi occhi, ed Eduard non solo era riuscito a procurarsi un vantaggioso rinvio ma, guardandola dall'alto, cominciava a perdere l'angosciosa sensazione di essere una semplice preda e a riacquistare sicurezza. Si allontanò di un passo per poterla guardare tutta, e le ordinò nuovamente:

«Prega!».

E poiché lei continuava a tacere, gridò:

«E a voce alta!».

E davvero quella signora nuda, magra, inginocchiata, cominciò a recitare:

«Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno... ».

Pronunciando le parole della preghiera levava gli occhi su Eduard come se Eduard fosse stato Dio. Lui la osservava con godimento sempre maggiore: gli stava davanti la direttrice in ginocchio, umiliata da un subalterno, gli stava davanti una rivoluzionaria nuda, umiliata dalla preghiera; gli stava davanti una signora che pregava, umiliata dalla nudità .
Quella triplice immagine di umiliazione lo inebriò e all'improvviso avvenne qualcosa di inaspettato: il suo corpo rinunciò alla propria resistenza passiva; Eduard era eccitato!

Nell'istante in cui la direttrice diceva «e non indurci in tentazione», Eduard si tolse velocemente tutti i vestiti. Alla parola «Amen», la sollevò impetuosamente da terra e la trascinò sul divano.

Ciò avvenne il giovedì, e il sabato Eduard andò con Alice in campagna dal fratello. Questi li accolse con affetto e prestò loro la chiave della non lontana casetta.
I due innamorati partirono e passarono l'intero pomeriggio a vagabondare per boschi e prati. Si baciarono ed Eduard potè constatare, con soddisfazione delle sue mani, che la linea immaginaria tracciata all'altezza dell'ombelico per dividere la sfera dell'innocenza da quella della fornicazione aveva cessato di valere. In un primo momento voleva sottolineare con le parole quell'avvenimento tanto lungamente atteso, ma poi ebbe paura e capì che era meglio tacere.

A quel che sembra, aveva giudicato bene; l'improvviso mutamento di Alice era infatti avvenuto senza alcun rapporto con la sua plurisettimanale opera di convincimento, senza rapporto con tutte le sue argomentazioni, senza rapporto con alcuna considerazione logica; al contrario, esso si basava esclusivamente sulla notizia del martirio di Eduard, quindi su un errore, ed era derivato da quell'errore in maniera anch'essa del tutto illogica; infatti, consideriamo bene le cose: perché mai la fedeltà da martire che Eduard dimostrava nei confronti della fede avrebbe dovuto avere adesso come conseguenza l'infedeltà di Alice alla legge divina? Dal momento che Eduard non aveva tradito Dio davanti alla commissione d'inchiesta, perché mai lei adesso avrebbe dovuto tradirlo davanti a Eduard?

In una situazione simile, ogni considerazione espressa ad alta voce avrebbe potuto smascherare senza volerlo l'illogicità dell'atteggiamento di Alice.
Per questo Eduard accortamente tacque, cosa che del resto non fu neanche notata, dal momento che Alice già parlava a sufficienza, era allegra e nulla indicava che il cambiamento avvenuto nella sua anima fosse stato drammatico o doloroso.

Quando cominciò a imbrunire, andarono nella casetta del fratello, accesero la luce, prepararono il letto, si baciarono, dopo di che Alice chiese a Eduard di spegnere. Attraverso la finestra penetrava però ancora il chiarore delle stelle, per cui Alice pregò Eduard di chiudere anche gli scuri. Nel buio più completo, Alice si spogliò e gli si concesse.

Da molte settimane Eduard sognava questi momenti, e stranamente, adesso che erano giunti, non aveva affatto la sensazione che fossero tanto importanti quanto faceva pensare la durata dell'attesa; gli sembravano così facili e naturali che, durante l'atto sessuale, era quasi distratto e cercava inutilmente di allontanare i pensieri che gli attraversavano la testa: gli tornarono alla mente le lunghe e inutili settimane in cui Alice lo aveva tormentato con la sua freddezza, gli tornarono alla mente tutte le tribolazioni che lei gli aveva procurato a scuola, sicché al posto della riconoscenza perché lei gli si concedeva, cominciò a provare del rancore e una sorta di desiderio di vendetta.

Era indispettito dalla leggerezza e dalla mancanza di tormenti con cui adesso Alice tradiva quel suo Dio della continenza che un tempo aveva adorato con tanto fanatismo; era indispettito dall'idea che nulla riuscisse a strapparla da quel suo equilibrio: nessun desiderio, nessun avvenimento, nessun cambiamento; era indispettito da quel suo modo di vivere ogni cosa senza lacerazioni, fiduciosa in se stessa, con facilità. E dominato ormai totalmente dal dispetto, cercò di fare l'amore con violenza e rabbia, per strapparle un grido, un gemito, una parola, un lamento, ma non vi riuscì. La ragazza era silenziosa e, nonostante tutti i suoi tentativi, il loro rapporto finì in silenzio e senza nulla di drammatico.

Lei poi gli si rannicchiò contro il petto e si addormentò velocemente, Eduard invece restò a lungo sveglio e si accorse di non provare nessunissima gioia. Cercò di immaginarsi Alice (non il suo aspetto fisico ma, se possibile, il suo essere nella sua totalità ) e all'improvviso gli venne da pensare che la vedeva sbiadita.

Soffermiamoci su questa parola: così come Eduard l'aveva vista fino ad allora, Alice, pur con tutta la sua ingenuità , era un essere saldo e chiaro: la bella semplicità del suo aspetto esteriore sembrava corrispondere alla candida semplicità della sua fede, e la semplicità del suo destino sembrava essere la motivazione del suo atteggiamento. Fino ad allora Eduard l'aveva vista monolitica e compatta; aveva potuto ridere di lei, aveva potuto maledirla, aveva potuto circuirla con le sue astuzie, ma aveva dovuto (suo malgrado) rispettarla.

Adesso, però, la trappola non premeditata della falsa notizia aveva sconvolto la compattezza del suo essere e ad Eduard sembrò che le idee di Alice non fossero in realtà che qualcosa di incollato al suo destino, e che il suo destino non fosse che qualcosa di incollato al suo corpo, la vide come la mescolanza fortuita di un corpo, di idee e di una biografia, una mescolanza inorganica, arbitraria e labile.

Cercò di immaginarsi Alice (lei respirava profondamente sulla sua spalla) e vedeva il suo corpo da una parte e le sue idee dall'altra: quel corpo gli piaceva, quelle idee gli sembravano ridicole, e a metterli insieme non ne veniva fuori alcun essere; la vedeva come una linea tracciata sulla carta assorbente: senza contorni, senza forma.

Quel corpo gli piaceva davvero. Quando al mattino Alice si alzò, la obbligò a restare nuda, e lei, sebbene ancora la sera prima avesse insistito testardamente per chiudere gli scuri, perché le dava fastidio anche il pallido chiarore delle stelle, adesso l'aveva del tutto dimenticato il suo pudore. Eduard la osservava (lei saltellava allegra cercando il sacchetto del the e i biscotti per la colazione) e Alice, quando si voltò un istante a guardarlo, lo trovò pensieroso. Gli chiese cosa avesse. Eduard le rispose che dopo la colazione doveva fare un salto dal fratello.

Il fratello gli domandò come si trovava a scuola. Eduard disse che nell'insieme andava bene, e il fratello disse:

«La Čecháčková è una carogna, ma io l'ho perdonata già da tempo. L'ho perdonata perché non sapeva quello che faceva. Voleva farmi del male, e invece mi ha aiutato a costruirmi una vita bella. Come contadino guadagno di più e il rapporto con la natura mi difende dallo scetticismo cui sono soggetti gli abitanti della città».

«Anche a me, in effetti, quella tardona ha portato fortuna» disse Eduard sovrappensiero, e raccontò al fratello di come si era innamorato di Alice, di come aveva finto di credere in Dio, del processo che gli avevano fatto, di come la Čecháčková avesse voluto rieducarlo e di Alice che alla fine gli si era concessa come a un martire. Tralasciò di parlare solo di come aveva costretto la direttrice a recitare il Padre Nostro, perché aveva scorto negli occhi del fratello una certa disapprovazione. Tacque e il fratello disse:

«Io ho forse tutti i difetti possibili, tranne uno. Non ho mai simulato e ho sempre detto in faccia a tutti quello che pensavo».

Eduard voleva bene al fratello e la sua disapprovazione lo ferì: cercò di giustificarsi e iniziarono a discutere. Alla fine Eduard disse:

«Caro fratello, lo so che sei una persona schietta e te ne fai un vanto. Poniti però una domanda: Perché, in fondo, dire la verità? Cosa ci obbliga a farlo? E perché mai consideriamo la sincerità come un virtù? Immagina di incontrare un pazzo che pensa di essere un pesce e che noi tutti siamo dei pesci. Ti metterai a discutere con lui? Ti spoglierai davanti a lui per mostrargli che non hai squame? Gli dirai in faccia quello che pensi? Su, dimmi!».

Il fratello taceva ed Eduard continuò:

«Se tu non gli dicessi niente di più della pura verità, solo ciò che davvero pensi di lui, accetteresti una conversazione seria con un pazzo e diventeresti tu stesso un pazzo. E la stessa cosa avviene col mondo che ci circonda. Se io mi ostinassi a dirgli in faccia la verità , significherebbe che lo prendo sul serio. E prendere sul serio una cosa così poco seria significa diventare io stesso poco serio. Fratello caro, io devo mentire se non voglio prendere sul serio i pazzi e diventare pazzo io stesso».

Era il pomeriggio di domenica e i due innamorati partirono per far ritorno in città; erano soli nello scompartimento (la ragazza chiacchierava di nuovo allegramente) ed Eduard si ricordò di come poco tempo prima aveva sognato di trovare nella figura facoltativa di Alice la serietà della vita, dal momento che i suoi obblighi non gliel'avrebbero mai concessa, e si rese conto con tristezza (il treno batteva idilliacamente contro le giunture delle rotaie) che la storia d'amore vissuta con Alice era futile, fatta di casi fortuiti ed errori, senza alcuna serietà e senza alcun senso, sentiva le parole di Alice, vedeva i suoi gesti (gli teneva stretta la mano) e pensò che si trattava di segni privi di significato, monete senza copertura, pesi di carta, e che lui non avrebbe potuto dar loro più importanza di quanta ne poteva dare Dio alla preghiera della direttrice nuda; e gli sembrò all'improvviso che in fondo tutte le persone che vedeva nel suo nuovo posto di lavoro non fossero che linee tracciate su una carta assorbente, esseri dall'atteggiamento interscambiabile, esseri privi di una solida sostanza; quello che però era peggio, molto peggio (gli venne poi da pensare), era che lui stesso non era che un'ombra di tutti quegli uomini ombra, dal momento che esauriva tutta la sua intelligenza solo nello sforzo di adattarsi a loro e di imitarli, e anche se li imitava ridendo dentro di sé senza alcuna serietà , anche se in tal modo cercava segretamente di deriderli (e giustificare così il suo tentativo di adattamento), ciò non cambiava nulla, perché un'imitazione, anche se fatta con malignità , rimane pur sempre un'imitazione, e un'ombra che deride qualcuno rimane pur sempre un'ombra, subalterna e derivata, misera e semplice.

Era umiliante, era terribilmente umiliante. Il treno batteva idilliacamente contro le giunture delle rotaie (la ragazza chiacchierava) ed Eduard disse:

«Alice, sei contenta?».

«Certo» disse Alice.

«Io sono disperato» dlisse Eduard.

«Sei pazzo?» disse Alice.

«Non avremmo dovuto farlo. Non doveva accadere».

«Che ti salta in mente? Se eri proprio tu a volerlo».

«Sì, lo volevo» disse Eduard. «Ma è stata quella la mia colpa maggiore, e Dio non me la perdonerà mai. Era un peccato, Alice».

«Scusa, ma che ti è successo?» disse la ragazza con voce tranquilla. «Se eri proprio tu a dire in continuazione che Dio vuole soprattutto amore!».

A sentire come Alice si stava tranquillamente appropriando a posteriori del sofisma teologico col quale tempo addietro egli aveva dato avvio, senza successo, alla sua lotta, Eduard si infuriò:

«Lo dicevo per metterti alla prova. Adesso la capisco la tua fedeltà a Dio! Ma chi sa tradire Dio, sa tradire gli uomini con una facilità cento volte maggiore!».

Alice trovava con prontezza sempre nuove risposte, ma sarebbe stato meglio che non le avesse trovate, perché non facevano che aizzare la rabbia vendicativa di Eduard. Eduard continuava a parlare e continuò (usò addirittura le parole ribrezzo e disgusto fisico) fino a che non riuscì a strappare a quel volto tenero e tranquillo un singhiozzo, delle lacrime, un lamento.

«Addio» le disse alla stazione e la lasciò piangente. Soltanto una volta a casa, alcune ore più tardi, quando quella strana rabbia l'ebbe lasciato riuscì a capire la piena portata di ciò che aveva fatto; ripensò al corpo di lei che quella mattina gli saltellava davanti nudo, e quando si rese conto che quel bel corpo si stava allontanando da lui perché lui stesso l'aveva cacciato via di sua spontanea volontà, si diede dell'imbecille e gli venne voglia di prendersi a schiaffi.

Ma ciò che è stato è stato e non era più possibile porre rimedio a nulla.
Del resto, per amore di verità, dobbiamo di dire che, anche se l'immagine di quel bel corpo che si allontanava gli procurava una certa amarezza, Eduard si abituò a quella perdita abbastanza in fretta. Se ancora poco tempo prima la penuria di amore fisico lo faceva soffrire spingendolo a lamentarsi, si trattava della penuria provvisoria del nuovo venuto.

Questa penuria non lo faceva più soffrire. Una volta alla settimana faceva visita alla direttrice (l'abitudine aveva sbarazzato il corpo di Eduard dalle angosce iniziali) e aveva deciso di andare a trovarla fino a che la sua posizione a scuola non si fosse totalmente chiarita. Inoltre, cercava con successo crescente di conquistare ogni altra donna o ragazza. In conseguenza di questi due fatti cominciò ad apprezzare molto di più gli istanti di solitudine, e prese ad amare le passeggiate solitarie che talvolta univa, (vi prego, dedicate alla cosa ancora un briciolo di attenzione) a una visita in chiesa.

No, non temete! Eduard non ha iniziato a credere in Dio. Non voglio coronare il mio racconto con l'effetto di un paradosso così palese. Ma Eduard, benché sia sicuro che Dio non esiste, ama ugualmente accarezzare con nostalgia la sua immagine.

Dio è l'essenza stessa, mentre Eduard (e dalla storia con la direttrice e con Alice sono già passati diversi anni) non ha mai trovato nulla di essenziale né nei suoi amori, né nella sua professione di insegnante, né nei suoi pensieri, è troppo acuto per ammettere di vedere l'essenziale nell'inessenziale, ma è troppo debole per non desiderare segretamente l'essenziale.

Ah, signore e signori, triste è la vita dell'uomo che non riesce a prendere sul serio nulla e nessuno! Per questo Eduar sente il desiderio di Dio, perché solo Dio è dispensato dall'obbligo dispersivo di apparire e può semplicemente essere; perché solo lui costituisce (lui solo, unico e inesistente) l'essenziale controparte di questo mondo inessenziale (eppure proprio per questo tanto più esistente).

E così Eduard di tanto in tanto siede in chiesa e fissa pensieroso la cupola. Congediamoci da lui proprio in un momento del genere: è pomeriggio, la chiesa è silenziosa e vuota. Eduard siede in un banco di legno e soffre malinconicamente all'idea che Dio non esiste. Ma in questo preciso istante, la malinconia è così grande che all'improvviso dalle sue profondità emerge, reale e vivente, il volto divino. Guardate! Ma sì! Eduard sorride! Sorride, e il suo sorriso è felice...

Vi prego, serbatelo nella memoria con questo sorriso.


Amore e guerra - Woody Allen