20081224

Il quarto uomo "vien" da sé. O no?

Per la vigilia di questo natale scelgo di scrivere brevemente qualcosa riguardo ai difficili rapporti tra uomo e donna.

Ho sempre detto a tutti i miei amici maschi che mi ritengo molto fortunata a far parte del genere femminile e, con sincerità, ho esposto che il motivo principale sono le troppe difficoltà esistenti nel comprendere stati d'animo, paranoie e manie femminili.

Il comico Brignano fa una divertente parodia di "sfogo femminile" in cui mi ritrovo solo in parte e certamente non sotto quel tipo di profilo economico perché lavorando riesco a soddisfare i miei bisogni in piena autonomia.

Ritengo anzi fondamentale, per una donna che rispetta se stessa e che tiene alla sua indipendenza, riuscire ad amministrare le finanze in proprio, senza pesare sul reddito del compagno (non sarebbe giusto) ed evitando anche eventuali accuse di "sfruttamento" (non stimo gli opportunisti e sarei troppo orgogliosa per farlo).

Con l'esperienza le donne imparano che l'atto del "parlare con un uomo" non solo è perfettamente inutile ma addirittura stancante e fastidioso.

Il mio motto allora è: lamentarsi sempre e comunque, rompere le palle fino all'impossibile, rendergli la vita un inferno se necessario, ma senza aprire bocca: azione no bla-bla.

Per ottenere qualcosa dal proprio partner ci sono sistemi "casuali" e "indolore" che una donna deve assolutamente conoscere e che fanno leva su alcune delle caratteristiche standard del genere maschile: infallibili.





I problemi maggiori, almeno secondo la mia esperienza, si presentano con una forte difficoltà di comunicazione quando ci si trova a dover scindere l'amicizia dal sesso.

Eppure ho sempre creduto che fosse uno dei concetti più semplici (e tradizionali) da capire...

Invece, nel corso delle mie esigue avventure, mi sono sentita dare da uomini "di mondo" delle risposte così ingenue e disarmanti da lasciarmi esterrefatta.

Quella che si chiama "amicizia di letto" ho sempre pensato non facesse per me, preferisco infatti o un amico o qualcuno con cui fare sesso senza complicazioni, poche chiacchere e nessuna confidenza.

Difficile anche che ripeta l'"operazione" con il solito albatros o pellicano che sia anche in caso di alto tasso di soddisfazione erotica.
A questo proposito devo riconoscere che la sincerità (in certi casi) non è proprio possibile soprattutto per non ferire chi dice di essersi "impegnato" al massimo delle possibilità.

Certo è che con la maturità crescono le aspettative e ci si aspetta una certa "competenza" in materia.


Possibile allora che debba sentirmi in colpa se non ho nessuna difficoltà a non farmi coinvolgere troppo da quello che fin dall'inizio catalogo come rapporto di una (sola e unica) notte?

Possibile che debba sentirmi diversa se dopo averlo fatto non mi passa per la testa un fidanzamento o un matrimonio?

Possibile che debba sentirmi una stronza se ho (di natura) un approccio "maschile" rispetto al sesso?

Assolutamente no.

Ovvio che se ci sono dei sentimenti il discorso cambia.

Concludo scrivendo che trovo totalmente ingiusto che 3 uomini della mia vita mi abbiano tolto la parola (solo) perché abbandonati... si rendessero conto della fortuna che hanno avuto!

:)



20081219

Peccati immortali



Ho assaggiato per la prima volta del cioccolato al peperoncino di ottima qualità e ne sono rimasta entusiasta, completamente inebriata da un gusto che non saprei definire ma che mi ha suscitato una vera e propria estasi...

Non avrei mai pensato.

L'"orgasmo" culinar-natalizio della Signora G.





20081217

(NO) Blood Revolution

Tratto da Disobbedienza Civile - Henry Thoreau

Per sei anni non ho pagato la poll-tax. Per questo sono stato incarcerato per una notte e mentre me ne stavo lì, a osservare quei muri di pietra massiccia spessi due o tre piedi, la porta di legno e di ferro dello spessore di un piede e l'inferriata dalla quale filtrava la luce, non potei fare a meno di riflettere sull'assurdità di quella istituzione che mi trattava come se fossi stato semplice carne, sangue e ossa, da mettere sotto chiave.

Mi colpiva che, alla fine, avesse dedotto che questo era il migliore uso che poteva fare di me, e che non avesse mai pensato di avvalersi in qualche altro modo dei miei servigi. Capii che se c'era un muro di pietra fra me e i miei concittadini ce n'era uno ancora più difficile da scalare o sfondare, prima che potessero arrivare a essere liberi come lo ero io.

Neppure per un momento mi sentii imprigionato, e quei muri mi sembravano solo un grande spreco di pietra e di malta. Mi sentivo come se solo io, fra tutti i miei concittadini, avessi pagato la mia tassa. E loro, naturalmente, non sapevano come trattarmi e si comportavano da ignoranti.

In ogni minaccia e in ogni cortesia c'era grossolanità, poiché credevano che il mio più grande desiderio fosse quello di trovarmi dall'altra parte del muro di pietra. Non potevo fare a meno di sorridere notando con quanta cura essi chiudevano a chiave le porte che imprigionavano i miei pensieri, che tuttavia li seguivano anche fuori, senza alcun vincolo o impedimento, e che in realtà rappresentavano l'unico pericolo.

Dato che non potevano raggiungere me, avevano deciso di punire il mio corpo; proprio come i ragazzini, che se non possono arrivare a qualcuno per il quale portano rancore finiscono per maltrattarne il cane.

Capii che lo Stato era stupido, timoroso come una zitella in mezzo all'argenteria, incapace di distinguere gli amici dai nemici: persi tutto il rispetto che mi era rimasto nei suoi confronti, e lo compatii.

20081214

Pasticci(ni)

Tratto da: Alice nel paese delle meraviglie - Lewis Carrol


Quando Alice e il Grifone arrivarono, il Re e la Regina di Cuori erano seduti sul trono e una gran folla era raccolta intorno a loro: uccellini di ogni specie e altre bestie, insieme a tutto il mazzo di carte. Il Fante era in piedi davanti ai sovrani, incatenato, e con un soldato di qua e uno di là, a guardia. Vicino al Re c'era il Coniglio Bianco, con una tromba in una mano e un rotolo di pergamena nell'altra. Nel mezzo della Corte c'era un grande piatto pieno di pasticcini: avevano un aspetto così attraente che Alice a guardarli provò un grande appetito.
- Vorrei che il processo fosse finito - disse fra sé - e che si distribuissero i rinfreschi.
Ma sembrava che non ci fosse nessuna speranza in proposito, e allora cominciò a guardarsi intorno, tanto per passare il tempo.
Prima d'allora, Alice, non aveva mai messo piede in un tribunale ma aveva letto qualcosa nei libri intorno all'argomento e fu molto compiaciuta accorgendosi che conosceva il nome quasi d'ogni cosa, là dentro.
- Quello è il giudice - si disse - perché ha quella gran parrucca.
Il giudice, in quel caso, era il Re stesso; e siccome portava la corona sopra la parrucca, aveva l'aria sentirsi molto a disagio e non aveva un aspetto debitamente imponente.
«E quello è il banco dei giurati» pensò Alice «e quelle dodici bestiole, suppongo che saranno i giurati.»
Ripeté a se stessa due o tre volte l'ultima parola, sentendosi piuttosto orgogliosa della sua scienza: perché pensava, e giustamente, che poche bambine della sua età sarebbero state in grado di spiegarle il significato di certi termini.
I dodici giurati erano tutti affaccendati a scrivere su delle lavagnette.
- Che stanno facendo? - bisbigliò Alice al Grifone - non possono aver nulla da scrivere, ancora, perché il processo non è cominciato.
- Stanno scrivendo i loro nomi - bisbigliò in risposta il Grifone - per paura di dimenticarseli prima che il processo cominci.
- Che stupidi! - cominciò Alice a voce alta, indignata, ma si mise subito zitta perché il Coniglio Bianco gridò:
- Silenzio nella Corte!
E il Re inforcò gli occhiali e guardò attentamente intorno per vedere chi parlasse.
Alice vide benissimo, come se stesse guardando al di sopra delle loro spalle, che tutti i giurati scrivevano "che stupidi" sulle loro lavagne, e si accorse anche che uno di loro non sapeva come si scrivesse la parola "stupidi" e lo chiedeva al suo vicino.
- Un bel pasticcio saranno le loro lavagne prima che il processo sia finito! - si disse Alice.

Uno dei giurati aveva un gessetto che strideva. Alice naturalmente non poteva sopportarlo; attraversò la Corte, venne a mettersi dietro di lui e fece in modo di portargli via il gessetto. Tutto questo fu fatto con tanta rapidità che il povero piccolo giurato (era per l'appunto Memmo, il lucertolone) non riusciva a capire che diavolo fosse capitato al suo gessetto; per cui, dopo averlo cercato un bel pezzo lì intorno, fu costretto a scrivere con un dito per tutto il resto della seduta; e quale fosse il risultato ve lo potete immaginare, perché il dito, naturalmente, non lasciava alcun segno.
- Araldo, leggete l'accusa! - disse il Re.
Il Coniglio Bianco soffiò tre volte nella tromba, poi svolse la pergamena e lesse quel che segue:

La Regina di Cuori fece delle tartine
in un giorno d'estate;
il (fur)Fante di Cuori rubò quelle tartine
e poi se l'è mangiate.

- Riflettete al vostro verdetto! - disse il Re al Giurì.
- Non ancora, non ancora! - lo interruppe in fretta il Coniglio Bianco - ci manca ancora un bel po' prima di arrivare a questo!
- Chiamate il primo testimone! - disse il Re.
E il Coniglio Bianco soffiò tre volte nella tromba e gridò:
- Primo testimone!
Il primo testimone era il Cappellaio. Avanzò con una tazza di tè in mano e un pezzo di pane e burro nell'altra.
- Scusatemi Maestà se vengo con questa roba in mano: ma non avevo finito di prendere il tè quando sono venuti a cercarmi.
- Avreste dovuto aver già finito - disse il Re - Quando cominciaste?
Il Cappellaio guardò la Lepre Marzolina, che l'aveva seguito alla Corte a braccetto col Ghiro:
- Mi pare che fosse il 14 di Marzo - disse.
- Il 15 - corresse la Lepre Marzolina
- Il 16 - disse Ghiro.
- Scrivete! - ordinò il Re ai giurati che premurosamente scrissero tutte e tre le date sulle loro lavagne, poi le addizzionarono e le ridussero a lire e centesimi.
- Il vostro cappello! - disse il Re - Levatevelo!
- Non è il mio - osservò il Cappellaio
- RUBATO! - esclamò il Re, rivolgendosi ai giurati, che subito presero nota del fatto.
- Tengo i cappelli per venderli - si affrettò a spiegare il Cappellaio; - non ho un cappello mio. Sono un cappellaio.
A questo punto la Regina inforcò gli occhiali e cominciò a fissare severamente il Cappellaio che diventò pallido e inquieto.
- Fate la vostra testimonianza - disse il Re - e non siate nervoso, o vi faccio giustiziare sul posto.
Queste parole non sembrarono incoraggiare affatto il testimone che cominciò a dondolarsi ora su un piede ora sull'altro, guardando ansiosamente la Regina, e nella sua confusione addentò un gran pezzo di tazza invece che il pane col burro.

Proprio in quel momento Alice avvertì una sensazione molto curiosa che la imbarazzò un bel po' finché scoprì di che si trattava: semplicemente, stava crescendo di nuovo. Dapprima pensò che avrebbe fatto bene ad alzarsi e a lasciare la Corte, ma riflettendo meglio, decise di rimanere dov'era finché ci fosse posto per lei.
- Mi farebbe un piacere se non spingesse così - disse il Ghiro che sedeva accanto a lei - posso appena tirare il fiato.
- Non posso farne a meno - disse Alice - sto crescendo.
- Ma lei non ha il diritto di crescere QUI! - disse il Ghiro.
- Non dica sciocchezze! - rispose Alice più audacemente - anche lei sta crescendo!
- Sicuro! Ma io cresco ad una velocità ragionevole - disse il Ghiro - e non in quel modo ridicolo!
Si alzò molto seccato e se ne andò dall'altro capo della sala.
Durante tutto questo tempo la Regina aveva continuato a fissare il Cappellaio, e proprio nel momento in cui il Ghiro attraversava la Corte, disse a uno degli ufficiali:
-Portatemi la lista dei cantanti dell'ultimo concerto!
A queste parole il disgraziato Cappellaio cominciò a tremare talmente forte che uscì fuori dalle scarpe.
- Fate la vostra testimonianza - ripeté arrabbiato il Re - o sarete giustiziato all'istante, sia che siate nervoso o no.
- Sono un pover'uomo, Maestà - cominciò il Cappellaio con voce tremante - e non avevo ancora cominciato a prendere il tè... Non... Circa una settimana o così... E che si può dire delle fette di pane col burro che diventano sempre più sottili... e del tremolare del tè...
- Il tremolare di che cosa? - chiese il Re.
- Cominciò col tè...
- Col "", volete dire! Si capisce che "tremolare" comincia col "" - disse il Re con tono aspro - non c'è bisogno che veniate a insegnarmelo voi. Mi avete preso per un somaro?
- Sono un pover'uomo - seguitò il Cappellaio - dopo questo, la maggior parte delle cose cominciò a tremolare... Soltanto, dice la Lepre Marzolina...
- Non lo dicevo! - interruppe in fretta la Lepre Marzolina.
- Sì che lo dicevi! - insistè il Cappellaio.
- Nego! - disse la lepre Marzolina.
- La Lepre Marzolina nega - disse il Re. - Lascia indietro questa parte.
- Bene, in ogni modo il Ghiro diceva... - continuò il Cappellaio guardando ansiosamente il suo amico, per vedere se anche lui avrebbe negato.
Ma il Ghiro non negò nulla perché dormiva sodo.
- Dopo questo - seguitò il Cappellaio - mi preparai ancora qualche fetta di pane col burro...
- Ma che cosa diceva il Ghiro? - chiese uno dei giurati.
- Questo non me lo ricordo - rispose il Cappellaio.
- Dovete ricordarlo - disse il Re - o sarete giustiziato.
L'infelice Cappellaio lasciò cadere la tazza e il pane col burro e mise un ginocchio a terra:
- Sono un pover'uomo Maestà - cominciò - un uomo da nulla...
- Proprio un buono a nulla! - disse il Re.

A questo punto uno dei porcellini d'India applaudì e fu immediatamente soppresso dagli ufficiali della Corte. (Siccome questa espressione è piuttosto grave, vi spiegherò come si procedeva in questa faccenda. Gli ufficiali avevano un grande sacco, che si legava alla bocca con delle stringhe: ci infilarono dentro il porcellino d'India, con la testa per prima, legarono il sacco e poi ci si misero a sedere sopra.)
(«Son contenta di vedere che si fa così» rifletté Alice «ho letto tante volte nei giornali, alla fine dei processi: "Ci fu un tentativo d'applausi che fu immediatamente soppresso (o represso) dagli ufficiali della Corte", e non avevo mai capito fino ad ora che cosa significasse questa espressione».)

- Se è tutto qui quello che sapete - disse il Re al Cappellaio - potete mettervi giù.
- Non posso mettermi più giù di così: sono sul pavimento - rispose il Cappellaio.
- Insomma potete mettervi giù a sedere - disse il Re.
Qui un altro porcellino applaudì e fu soppresso.
«Bene» pensò Alice «In questo modo si finiscono tutti i porcellini d'India e poi si spera che si andrà avanti meglio».
- Preferirei andarmene a finire il mio - disse il Cappellaio, con un'occhiata ansiosa verso la Regina che stava leggendo la lista dei cantanti.
- Potete andare - disse il Re.
E il Cappellaio scappò via, senza nemmeno fermarsi a rinfilarsi le scarpe.
-... E a proposito, - aggiunse la Regina rivolgendosi a uno degli ufficiali - tagliategli la testa.
Ma il Cappellaio era fuori di vista prima ancora che l'ufficiale avesse raggiunto la porta.

- Chiamate il secondo testimone! - disse il Re.
Il secondo testimone era la cuoca della Duchessa. Aveva in mano la pepaiola; Alice lo indovinò subito, prima ancora che essa fosse entrata nella Corte, dal modo in cui cominciarono subito a starnutire quelli che erano vicino alla porta.
- Fate la vostra deposizione! - ordinò il Re.
- No! - disse la cuoca.
Il re guardò preoccupato il Coniglio Bianco che disse a bassa voce:
- Vostra Maestà deve interrogare il testimone.
- Già, devo, devo, devo - disse il Re con tono malinconico e, dopo aver incrociato le braccia sul petto, fissando severamente la cuoca finché le sopracciglia aggrottate nascosero quasi completamente gli occhi, chiese con voce profonda:
- Con che cosa si fanno i pasticcini?
- Pepe soprattutto - disse la cuoca.
- Melassa - borbottò una voce assonnata dietro di lei.
- Catturate quel Ghiro! - strillò la Regina - Decapitate quel Ghiro! Cacciate quel Ghiro fuori dalla Corte! Sopprimetelo! Pizzicottatelo! Strappategli i baffi!
Per qualche minuto l'intera Corte fu in scompiglio, occupata a scacciare il Ghiro; e quando finalmente tutti furono tornati ai loro posti, la cuoca era sparita.
- Non importa - disse il Re con aria molto sollevata. - Chiamate l'altro testimone - (e aggiunse sottovoce alla Regina: - Proprio, mia cara, quest'altro testimone dovresti interrogarlo tu. M'è quasi venuto il mal di capo!).

Alice guardava il Coniglio Bianco che frugava con gli occhi la lista, ed era molto curiosa di vedere chi mai sarebbe stato il nuovo testimone «perché finora» si diceva «non hanno ricavato granché dai loro testimoni».
Figuratevi la sua sorpresa quando il Coniglio Bianco gridò con la sua voce più acuta:
- Alice!
- Eccomi! - gridò Alice, dimenticando nella confusione del momento quanto fosse cresciuta negli ultimi istanti, e saltò su così in fretta che con l'orlo del vestito urtò il banco dei giurati, rovesciando tutti i giurati sulla testa della folla di sotto; i poveretti rimasero sparpagliati di qua e di là, così che le ricordavano un certo globo di pesciolini dorati che la settimana prima aveva ribaltato accidentalmente.
- Oh, scusate! - esclamò costernata; e cominciò a raccattarli più alla svelta che poté perché, con l'incidente dei pesci dorati sempre in testa, aveva una vaga idea che dovessero essere ripescati subito e rimessi nel loro banco o sarebbero morti.
- Il processo non può continuare - disse il Re con voce molto grave - finché tutti i giurati non sono di nuovo al loro posto. TUTTI! - ripeté con grave enfasi, fissando severamente Alice mentre parlava.
Alice guardò il banco dei giurati e vide che, nella fretta, aveva messo il lucertolone a testa in giù e la povera bestiolina agitava malinconicamente la coda, assolutamente incapace di muoversi. Lo prese su e lo rimise subito per il verso giusto.
- Non che la cosa abbia grande importanza - si disse Alice - penso che così o a testa in giù sarebbe press'a poco della stessa utilità per l'esito del processo.
Non appena il Giurì si fu un po' rimesso dallo spavento di quel capitombolo, e non appena furono ritrovati e resi a ciascuno gessetti e lavagne, tutti si misero molto diligentemente a scrivere un resoconto dell'incidente.
Tutti, meno il povero Memmo che sembrava troppo scombussolato per far qualcosa e sedeva a bocca aperta, con gli occhi al soffitto.
- Che cosa sapete intorno a questa faccenda? - chiese il Re ad Alice.
- Nulla - disse Alice.
- Nulla di nulla? - insisté il Re.
- Nulla di nulla.
- Questo è molto rilevante - disse il Re, rivolto ai giurati.
I giurati stavano per scrivere queste osservazioni sulle loro lavagne, quando il Coniglio Bianco intervenne:
- Irrilevante, intende dire naturalmente vostra Maestà - disse col tono più rispettoso, ma facendo dei segni molto significativi al Re mentre parlava.
- Si capisce, si capisce, irrilevante, voglio dire - si affrettò a dire il Re; e continuò fra sé e sé, a bassa voce: - rilevante... irrilevante...irrilevante... rilevante - come per sentire quale delle due parole suonasse meglio.
Alcuni giurati scrissero "rilevante" e altri "irrilevante".
Alice lo vide benissimo perché era abbastanza vicino per leggere sulle lavagne: «ma non importa un bel niente» pensò.
In quel momento il Re, che era stato affaccendato per qualche minuto a scrivere nel suo libro d'appunti, gridò:
- Silenzio!
E lesse dal suo libro:
- Regolamento n. 42: tutte le persone alte più d'un miglio dovranno lasciare l'aula del tribunale.
Tutti guardarono Alice. - Io non sono alta un miglio.- disse Alice.
- Lo siete - disse il Re.
- Quasi due miglia!- rincalzò la Regina.
- Bene, sia come vi pare, non me ne andrò! - disse Alice.
- Prima di tutto non è un regolare regolamento: l'avete inventato proprio ora.
- è il più vecchio regolamento sul mio libro.- disse il Re.
- Allora sarebbe il n. 1 - disse Alice.
Il Re impallidì e chiuse in fretta il libro.
- Riflettete al vostro verdetto - disse al giurì con voce bassa e tremante.
- Ci sono ancora delle testimonianze da esaminare, col beneplacito di vostra Maestà - disse il Coniglio Bianco, slanciandosi in avanti in gran fretta.
- Questo documento è stato raccolto proprio ora.
- Che cosa contiene? - interrogò la Regina.
- Non l'ho ancora aperto - disse il Coniglio Bianco - ma sembra che si tratti di una lettera scritta dal prigioniero a... a qualcuno.
- Dev'essere proprio così - disse il Re - a meno che non sia una lettera scritta a nessuno, cosa che è piuttosto fuori del comune - a chi è indirizzata? - chiese uno dei giurati. - Non c'è nessun indirizzo - disse il Coniglio Bianco - all'esterno non c'è scritto nulla.- spiegò la carta mentre parlava e aggiunse: - non è una lettera, dopo tutto: è una poesia. - è scritta di pugno del prigioniero? - domandò un altro giurato.
- No, non è la sua scrittura - disse il Coniglio Bianco - e questa è la cosa più strana.
Tutti i giurati parvero imbarazzati.
- Deve avere imitato la scrittura di qualcun altro - disse il Re.
Tutti i giurati si illuminarono.
- Col beneplacito di Vostra Maestà - disse il Fante - Io non ho scritto la poesia e nessuno può provare che l'ho scritta: non c'è la mia firma.
- Il fatto che non l'abbiate firmata - disse il Re - non fa che peggiorare la cosa. Se non ci fosse stata sotto qualche malizia, avreste messo la vostra firma come qualunque galantuomo.
Questa parole furono seguite da un battimani generale: era la prima cosa veramente intelligente che il Re avesse detto quel giorno.
- Questo, naturalmente, prova la sua colpa - disse la Regina - per cui tagliategli...
- Questo non prova un bel nulla! - disse Alice.
- Come!? Se non sapete nemmeno quel che c'è scritto dentro!
- Leggete la poesia! - ordinò il Re.
Il Coniglio Bianco inforcò gli occhiali.
- Col beneplacito di vostra Maestà, da dove devo iniziare? - chiese.
- Iniziate dall'inizio - disse gravemente il Re - e andate avanti fino alla fine; poi fermatevi.
Si sarebbe sentita volare una mosca, nella Corte, mentre il Coniglio Bianco leggeva questi versi:

Disse che andava colui da lei
per farmi rammentare.
Io se potessi ci tornerei,
ma, ahimè, non so nuotare.

Mi mandò a dire che non ci andassi
(san già la verità).
Se mi spingesse nei mali passi,
di te che mai sarà?

Io a lei sol uno,
due loro a lui,
a noi tu più di tre;
tornaron tutti, ragion per cui
saran tutti per me.

Se si dovesse, noi due, per caso,
trovarci in questo affare,
dice che quello ci mette il naso
e sa di rimediare.

Non ti nascondo che il mio pensiero,
prima di quest' attacco,
è che un impiccio tu sia davvero,
e causa dello smacco.

Fa' che non sappia la preferenza
che noi abbiam per loro,
e se anche, questo ti par scemenza,
credi, il silenzio è d'oro.

- Questa è la più importante testimonianza che abbiamo trovato fino ad ora - disse il Re, fregandosi le mani. - Signori giurati, riflettete al...
- Se qualcuno può spiegare quella filastrocca - disse Alice, la quale era talmente cresciuta in questi ultimi pochi minuti che non aveva minimamente paura di interrompere il Re - se qualcuno può spiegarla, gli do una lira. Non credo che ci sia un briciolo di senso comune in tutte quelle parole!
Tutti i giurati scrissero sulle loro lavagne: "essa non crede che ci sia un briciolo di senso comune in tutte quelle parole".
Ma nessuno di loro fece il più piccolo tentativo per spiegarle.
- Se non c'è nessun senso - disse il Re - ci risparmiamo un mondo di fastidi, perché non abbiamo nessun bisogno di trovarcene uno. - e tuttavia... tuttavia non so - aggiunse, stendendo la carta sul ginocchio e sbirciando i versi con un occhio solo - mi sembra che qualche senso, dopo tutto, ci si possa trovare... "ahimè non so nuotare"... Voi non sapete nuotare, vero? - chiese rivolto al Fante. Il Fante scosse tristemente le testa:
- Ho l'aria di uno che sa nuotare?
(Certamente non aveva l'aria di uno che sa nuotare, essendo fatto interamente di cartone.)
- Benissimo, fin qui - disse il Re; e seguitò a borbottare fra sé e sé i versi: - "san già la verità"... Questo si riferisce certamente ai giurati. "se mi spingesse nei mali passi"... è un'allusione alla Regina... "che mai sarà di te?"... eh, eh, sicuro: che sarà di te?... "io a lei sol uno, due loro a lui"... dev'essere quel che ha fatto dei pasticcini, si capisce...

- Ma il verso seguente dice: "tornaron tutti" osservò Alice.
- Infatti, eccoli là! - disse il Re trionfante, indicando i pasticcini sulla tavola. - Nulla potrebbe essere più chiaro! Poi, vediamo: "... prima di quest'attacco...". Tu non hai mai avuto degli attacchi di rabbia, vero, mia cara? - disse alla Regina.
- Mai! - urlò furiosa la Regina, e scaraventò un calamaio addosso al povero Memmo.
(L'infelice Memmo aveva smesso di scrivere col dito sulla lavagna, essendosi accorto che non lasciava alcun segno; ma ora ricominciò in fretta, servendosi dell'inchiostro che gli colava giù per la faccia, finché ce ne fu.)
- Se non hai avuto degli attacchi - seguitò il Re - allora la cosa non attacca.
E girò lo sguardo sull'assemblea con un sorriso.
Ci fu un silenzio mortale.
- è un gioco di parole - spiegò il Re, con aria offesa; e tutti risero.
- Signori giurati, riflettete al vostro verdetto! - disse il Re per la ventesima volta circa, in quel giorno.
- No, no - disse la Regina; - prima la sentenza, il verdetto dopo.
- Idiozia e stupidaggine! - disse Alice a voce alta.
- Che bell'idea! La sentenza prima del verdetto!
- Tieni a posto la lingua! - gridò la Regina, diventando paonazza.
- No!- disse Alice.
- Via la testa! - urlò con quanto fiato aveva in gola la Regina.
Nessuno si mosse.
- E che m'importa di voialtri? - disse Alice (che aveva intanto raggiunto completamente la sua statura). - Non siete niente altro che un mazzo di carte!

A queste parole, l'intero mazzo di carte si sollevò nell'aria e ricadde svolazzando giù sopra di lei. Alice mandò un piccolo grido, mezzo di paura e mezzo di rabbia, e cercò di scacciarlo via e... si trovò distesa sulla panchina, con la testa in grembo a sua sorella, che stava togliendole dolcemente dal viso alcune foglie morte che erano cadute giù dagli alberi.
- Svegliati Alice, cara! - disse la sorella - che sonno lungo hai fatto!

Alice nel paese delle Trombavoglie (I)



Introduzione di Davide Sala ad Alice nel paese delle meraviglie

(Edizione Giunti)

Un'ultima riflessione, su moralità, amoralità, immoralità nei racconti per bambini. Sappiamo tutti quali sono gli ingredienti che, nella società contemporanea, fanno il successo dei prodotti narrativi per giovanissimi. Avventura, sesso e violenza spinti e banalizzati all'estremo incollano senza scampo i nostri figli alla serie televisiva, al film, al fumetto di turno. Una mancanza di cultura, o forse di memoria culturale, ci fa spesso dimenticare che gli stessi ingredienti hanno incollato a libri e racconti generazioni di giovani fin dagli albori della storia. Puntando l'attenzione su prodotti narrativi per bambini, non possiamo fare a meno di notare come sesso e violenza siano le basi, più o meno celate, delle favole della nostra infanzia.
Chi può negare la pioggia di sangue che lorda le pagine di Cappuccetto Rosso? Chi disconosce la simbologia fallica del naso di Pinocchio? Se controbattiamo che in Cappuccetto rosso la violenza è confinata nella sfera della fantasia dovremmo riconoscere di aver cresciuto figli così mentecatti da credere prodotti della cronaca le Tartarughe Ninja o i Power Rangers. Se invece confidiamo nel mascheramento del simbolo sessuale da parte del Collodi, dovremmo interrogarci sugli effetti deleteri di un messaggio subliminale del tipo: se dici le bugie ti diventa lungo.
Spesso ci si sofferma troppo sulla superficie dei prodotti narrativi per bambini (enumerando morti ammazzati, parolacce e seni nudi contenuti in ognuno di essi), senza curarsi minimamente delle loro strutture assiologiche profonde.
Anche in Alice nel paese delle Meraviglie è possibile individuare simboli sessuali ed episodi di violenza inaudita: da una parte il collo/fallo della bambina che si allunga a dismisura o la porticina/vagina nascosta dietro la tenda; dall'altra una Regina sanguinaria che fa decapitare chiunque le capiti a tiro, o il crudele "richiamo all'ordine" dei porcellini d'India.
Questo tipo di violenza non differisce dai Power Rangers perché meno 'reale', ma piuttosto perché è la concretizzazione di uno schema assiologico profondo in cui la significatività, l'efficacia e l'etica stessa della convenzione-violenza sono radicalmente messe in ridicolo: è a questo livello profondo che è forse possibile fare dei distinguo: le liste dei morti ammazzati o dei nudi integrali risolvono ben poco.

20081201

In vena di ricordi



Erano due fratelli, Bruno e Marino.

Bruno, il maggiore, era un uomo preciso, metodico, ingenuo e onesto fino all'inverosimile, che aveva preso per moglie una donna forte che amava per continuare a fare il suo mestiere: il contadino.

Marino invece era bello come il sole, estroso, artista, con un carattere chiuso e impenetrabile che aveva un grande sogno nel cassetto: fare il marinaio.

C'era (e c'è ancora) una vasca, che a quel tempo poteva essere paragonata ad una piscina che pochissimi poderi avevano.

E lì Marino si allenava, su e giù per quella vasca, in attesa della sperata risposta positiva che lo avrebbe fatto entrare in Marina.

Quella lettera non arrivò mai a destinazione perché i parenti anziani la strapparono di nascosto: doveva mandare avanti il podere con il fratello, non poteva scegliere.

Marino non fu più lo stesso. Troppo deluso non provò neanche a ribellarsi a quello che era stato deciso come il suo destino, si chiuse sempre di più e lavorò la terra.

Ed era bravo.

Aveva la capacità di riuscire brillantemente in qualsiasi cosa facesse, anche quando andò a lavorare in una cava di travertino.

Bruno e Marino la comprarono e arrivavano da svariati posti della Toscana per acquistare il travertino che tagliavano i due fratelli lavorando duramente, senza sosta, spaccandosi la schiena.

La Collegiata del paese è rivestita da quel travertino.

Dovettero vendere la Cava per pochi spiccioli "per il bene del popolo", prima che gli venisse espropriata per il medesimo motivo.

Inutile dire che quel "bene del popolo" non ci fu neanche lontanamente... ma di questo non voglio ricordare niente.

Bruno era mio nonno.

Marino era lo zio Marino.

Bruno morì che avevo tre anni e ancora me lo ricordo, Marino prese il suo posto come nonno e come contadino.

Portò avanti il podere completamente da solo.

Mi portava da bambina, d'estate, al bar del paese e in un certo senso mi proteggeva perché al mio arrivo era guardata dagli altri bambini sempre un po' di traverso... "è arrivata la fiorentina" dicevano fra loro.

A quell'età mi sentivo emarginata da quei contadinotti ma col tempo imparai a trarre vantaggio dall'essere considerata una cittadina.

Mi comprava la coppettina Sammontana panna e cioccolato, sempre quella, e non mi diceva niente.

Ma non potrò mai dimenticare quanto amore ci fosse in quella carezza sulla mia guancia, in quel suo sorriso rassicurante, senza parole, non c'era bisogno, io capivo.

Quante volte mi portava alla trebbiatura che era come una festa per me, o a vedere i maialini appena nati, o a cavallo delle mucche del suo fratello di latte.

Sul trattore (che c'è ancora) non mi ha mai voluto portare perché era troppo premuroso ma quante volte l'ho visto arare il campo fino al tramonto.

Quanta terra hai lavorato Marino!

Quanto eri infelice.

L'ho sognato molti mesi fa vestito come Corto Maltese, una bianchissima uniforme da marinaio.

Nonostante sia morto da una ventina d'anni deve aver realizzato il suo sogno da non molto.

Non mi ha detto niente, solo il suo sorriso.



Perché i film di Totò mi alzano il morale:






20081122

Déjà vue


Un dato di fatto per niente trascurabile è che dai tempi de Lo Hobbit non mi divertivo così tanto nella lettura di un libro.

La constatazione nasce dall'idea che trovarlo spassoso è semplicemente terrificante, date alcune delle situazioni descritte.

E invece no.

Rispecchia esattamente il mio gusto ovvero uno stravolgimento delle convenzioni, un pugno nello stomaco sferrato senza sforzo, con una naturalezza e semplicità imbarazzanti.

Sto parlando dei racconti di Jerry Romano raccolti in un volumetto dal titolo Ragliando disperato.

Situazioni grottesche ma (ahinoi) non impossibili, descritte con sarcasmo e originalità, spiazzanti, meschine, e cosa che me lo fa rendere memorabile, con una maniera cruda (eppure spiritosa) di squarciare l'odiatissimo velo dell'ipocrisia.

Ne riporto tre tra i più "morbidi" ma ne consiglio vivamente la lettura.


Fine di Arturo

Entrai nel salone con un'espressione raggiante. Infine ce l'avevo fatta, ma nella testa mi riecheggiava il lamento di Arturo ... Davanti agli occhi avevo il suo sguardo incredulo. Incredulo, ma in qualche modo comprensivo. Scusa Arturo, ma quel giorno avevo bisogno del mio miglior sorriso.

Erano più o meno cinque anni che aspettavo l'invito di Tozzetti per la festa di Natale.

Nella sua tenuta di campagna ogni 23 dicembre il Commendatore offriva ai collaboratori più fidati e meritevoli un ricco cenone, durante il quale i loro rapporti personali si stringevano o si consolidavano; essere invitati in quell'occasione poteva significare cambiar vita.

Per quindici anni mi ero fatto il mazzo in azienda, svegliandomi alle cinque per raggiungere orrendi cantieri lontani, sbrigando rogne che nessun altro s'accollava, prendendo lavate di testa per qualunque cosa non filasse...

La mattina del 18 dicembre avevo visto Giulia, la segretaria personale del Commendatore, girare per le stanze con il mazzetto di buste presidenziali in mano e pregavo perché s'avvicinasse. Me lo meritavo quell'invito, perdio. Invece quella andava da Giorgiani il delatore, da Sciuto il leccaculo, dalla Verduzzo la vipera...

Con le mani tragicamente vuote, infine, ritornò verso lo studio di Tozzetti e mi cascò il mondo addosso.

Mi veniva da piangere, non sapevo se aspettare pazientemente ancora un anno o alzarmi e uscire da quell'ufficio rovesciando qualche scrivania.

Mentre sentivo il sangue pomparmi sulle guance, udii nuovamente il suono di quei tacchetti puttaneschi venire verso di me e, subito dopo, la testona mesciata di Giulia fece capolino nel riquadro della mia porta:

«Ortè, tietti forte ...».

«Che c'è?», dissi facendo finta di niente, ma col cuore in tumulto.

«Questa il Commendatore se l'è lasciata per ultima: "preg.mo dottor Ortensi", c'è scritto. Auguri cocco, oggi hai svoltato».

Aprii il sospirato invito e dovetti correre al gabinetto per l'emozione. Seduto sulla tazza, lessi e rilessi le parole del capo: mi mandava addirittura a prendere a casa!

Passai le notti successive pensando a cose intelligenti da dire, divorando centinaia di pagine web sulle tendenze manageriali emergenti, ma anche sull'arte concettuale, sul nuovo cinema afgano e la viticoltura nella West Coast ... Per non raccontare della fatica dovuta alla scelta del vestito e ancor di più del pensierino natalizio da portare al Commendatore: in quel caso, guai a esagerare, un regalo appariscente mi avrebbe etichettato nella migliore delle ipotesi come provincialotto. Scelsi accuratamente un "semplice" CD musicale, in realtà costosissima leccornia per intenditori di classica contemporanea; di certo, non sarebbe stato mai ascoltato, confidavo però che l'avrebbe fatto analizzare da esperti.

Così arrivò il 23 dicembre. La mia giornata cominciò alle 10 precise con l'appuntamento da Gastone per un'acconciatura curata ma dall'assetto sportivo. Alle 12 ero in sartoria per prova e ritiro del trebottoni nuovo, alle 13 e 30, crackers, tonno e Tavernello davanti al TG3, alle 14 circa ... Sonno profondo.

Sarà stato per la stanchezza accumulata, o forse per lo stress, che mi svegliai solamente sentendo abbaiare il mio vecchio cane all'indirizzo del citofono; aprii gli occhi e m'accorsi che tutt'intorno era buio. Il cuore mi saltò in gola e gli occhi volarono all'orologio. Mai potrò scordare la posizione delle lancette del mio finto Rolex: le venti e sette! Mi catapultai alla cornetta e farfugliai un paio di parole a caso, dalla strada mi rispose una voce cortese:

«Buonasera, dottor Ortenzi. Mi manda il Commendator Tozzetti, sono venuto a prenderla».

«Ehm, sì, certo. Mi ... mi dà ancora un minuto?».

«Naturalmente dottore, l'aspetto proprio qui sotto».

Ma quale minuto! Avrei avuto bisogno di un paio d'ore per sistemarmi decentemente. Saltai sul letto e corsi al cesso, montai sul bidet pisciando e lavandomi allo stesso tempo. Completamente fradicio dalla cintola in giù, mi rassettai la capigliatura spruzzando colonia tutt'intorno; corsi poi nuovamente in camera e, piroettando sul letto, tentai un inforcamento al volo dei nuovissimi pantaloni.

Roteando in aria, vidi la mia fine sotto forma di spigolo del comodino.

Ci finii dritto con la bocca. Più che il dolore non scorderò il rumore: come un ceppo di legno che si spacca sotto un buon colpo d'ascia.

Ragliando disperato, portai la mano agli incisivi. Incisivi non originali, a dire il vero; si trattava infatti di un ponte dentario impiantato un paio d'anni prima, successivamente a una lite in cantiere con un manovale cagliaritano. Li osservavo inebetito, quei due costosissimi denti di porcellana che mi ritrovai sul palmo mentre suonava ancora il citofono. Mi fiondai alla cornetta.

«Fì?».

«Perdoni dottore, il Commendatore mi ha raccomandato la puntualità. Sa, il discorso di benvenuto ...».

«Faccio fùbito!».

Mi ficcai un tovagliolo in bocca e corsi al cassetto dove conservo gli utensili; per fortuna trovai subito il Bostik.

Premetti fra le dita il tubetto fino a riempire di colla i fori nelle gengive, poi spinsi dentro la protesi per un paio di minuti. Dopo la sopportazione di un terribile bruciore, constatai con gioia che l'apparato sembrava incredibilmente tenere, purtroppo però, le esalazioni urticanti della colla salirono rapidamente su per le fosse nasali. Capii subito che non c'era verso di frenarlo, quello starnuto, così mi voltai verso il lavabo della cucina e sparai il colpo. Con infinito orrore sentii tintinnare qualcosa giù per lo scarico del lavandino e la lingua tremante confermò la nuova perdita della protesi. Grazie a dio, però, sapevo dov'era finita.

Nel medesimo cassetto del Bostik conservavo anche una chiave inglese, con 1a quale avrei potuto svitare il sifone e recuperare il preziosissimo reperto. Sputando sangue tentai con quell'attrezzo di far girare la corona superiore, senza però alcun risultato: il calcare decennale, se non si usano prodotti adeguati - lo sanno tutti - non s'intacca.

Allora l'idea: presi l'aspirapolvere nello stanzino e smontai il terminale a scopetta; al suo posto innestai il becco piccolo, quello per gli angolini, lo introdussi nello scarico del lavandino ed accesi l'elettrodomestico. Dopo aver succhiato un po' di sciacquatura di piatti, sentii con gioia trotterellare i dentini su per il corrugato.

Afferrai un coltello da bistecca, aprii lo sportellino dell'aspiratore e squartai il sacchetto che c'era all'interno. L'acqua che avevo aspirato dal sifone aveva formato, insieme all'abbondante polvere, una melma in cui era difficile cercare l'affarino. Non mi diedi certamente per vinto e nella poltiglia nerastra trovai infine i miei poveri incisivi di porcellana. Li tirai fuori con calma, stringendoli con forza tra pollice e indice per paura che a causa della loro scivolosità mi sfuggissero di mano. Ero a un passo dalla soluzione: dopo un bel risciacquo, la colla cianoacrilica sarebbe certamente riuscita dove il Bostik aveva fallito.

I1 destino, però, spesso è implacabile e ancora una volta trillò il citofono maledetto, causandomi uno spasmo nervoso che fece schizzar via i denti dalle dita viscide. Caddero e s'infilarono fra la poltrona e la cuccia di stoffa del mio vecchio cocker. Afferrai con rabbia la cornetta:

«Hai rotto il cazzo! Ti do cento pezzi fe mi afpetti ancora e poi dici al capo che c'era traffico».

«Con cento mi ci spazzo il culo, dottore. Facciamo trecento per altri cinque minuti al massimo. Poi giuro che torno indietro e dico al Commendatore che lei s'era scordato del suo invito di merda».

«Occhei».

Mi tuffai per terra spiaccicando la guancia sul marmo, nel tentativo d'infilare lo sguardo sotto al divano, ma laggiù dei miei denti neanche l'ombra. Sullo sfondo della scena però, richiamato da un tossire canino, notai la mia bestiola sforzarsi nell'ingoiare qualcosa d'insolito... Mi tuffai su di lui e l'afferrai per il collo peloso.

«Fpùta! Fpùta, brutto cagnaccio! Ti fei pappato i miei denti!».

Lo sbattei, lo rovesciai, poveretto, ma ormai la protesi era andata giù; allora gl'infilai tre dita in fondo alla gola con la speranza di farlo vomitare. Un paio di conati ed uno schizzo di succo gastrico, questa fu la miseria che riuscii ad ottenere! Tre buoni minuti se n'erano già andati, ero disperato, a quel punto afferrai il coltellone da bistecca. Non avevo altra scelta.

«Qua, Arturo. Vieni bello», gli dissi, sapendo che a quelle parole si metteva a pancia in su per farsi coccolare, povero vecchio amico mio.


Elettrico Climax

Mi stavo facendo Andreina Pelanti di Ripalunga. Non ci potevo credere, me la stavo proprio facendo sul serio. Quello che non sapevo ancora è che di lì a poco avrei provato sensazioni sconosciute e inimmaginabili.

Tutto cominciò il giorno dopo il piccolo intervento che avevo subìto al setto nasale. Ero nella mia camera in clinica e leggevo, completamente a mio agio e perfettamente riposato; ad un tratto sentii bussare delicatamente alla porta, era la suorina che si occupava di me.

«Scusi il disturbo, volevo controllare la medicazione».

«Venga sorella, si accomodi. Mi sento già piuttosto in forma, sa?».

«Questo mi fa piacere. Vedrà avvocato, fra un paio di giorni sarà come nuovo... Sente dolore?», disse iniziando a scartare il mio naso.

«Per niente, solo un po' di prurito».

«La medicazione è a posto, adesso controlliamo la febbre. Le accendo la tivù, intanto?».

«Faccia lei. Non c'è mai niente d'interessante.»

«Scusi se mi permetto - disse scrollando il termometro, ma fra cinque minuti va in onda il meglio di Bunker».

«Bunker?».

«Non mi dica che non lo ha mai visto. Sa, il reality show in cui una dozzina di vip sono rinchiusi in un rifugio antiatomico».

«Ah sì ... Mi pare ...», farfugliai. Lo conoscevo benissimo invece, a dire il vero non ne avevo perso una puntata. Mi vergognavo solo a dirlo.

«Peccato che non lo abbia seguìto, è proprio divertente - continuò la suora, premendo un tasto del telecomando. Questa sera però si potrà rifare: ripropongono i momenti più appassionanti dell'intero ciclo. Se non le dà fastidio, attenderei qui la misurazione della sua temperatura».

«Nessun disturbo, sorella. Così mi potrà illustrare i particolari del programma».

Lo spettacolo stava iniziando: musica dal vivo, luci, sorrisi e tanti appalusi.

«Vede avvocato, seduti dietro alla presentatrice ci sono tutti i partecipanti: attori, modelle, nobildonne, calciatori, molti certamente li conosce».

Hanno passato due mesi a scannarsi in un rifugio dieci metri sottoterra, ed ora che lo show è finito sembrano di nuovo grandi amici. Ah, che mistero l'animo umano...».

«C'è un sacco di gente, vedo. Anche quella giornalista del TG».

«é molto simpatica. Però, mi permetta, fra tutte le donne si distingue la contessa Pelanti: elegante, raffinata, incredibilmente bella, non trova?».

«Sì, sembra proprio splendida», dissi, fingendo di non conoscerla.

«Un metro e settantotto - specificò curiosamente la suora-, taglia quarantadue e una quarta naturale di seno, é un vero spettacolo la contessa, sensuale bellezza e innata eleganza: il Signore non è stato davvero avaro con lei. Beh, ora vediamo se ha la febbre».

Guardavo la suora piuttosto incuriosito. Parlava di quella donna con un trasporto che non mi sembrava del tutto normale. Poi continuò: «Trentasette e due, avvocato. Appena due linee di febbre, ma non escludo che le siano venute guardando la contessa Pelanti, eh?».

«Beh, sorella, non esageriamo...», ridacchiai con una vena d'imbarazzo.

«Esageriamo invece. Quanto pagherebbe per... Sì, insomma, per...»

«Per?...»

«...farsi la contessa, ecco».

«Ho sentito bene?».

«Su, dica avvocato: per accoppiarsi con la Pelanti di Ripalunga - una volta sola, però - quanto?».

«Cosa dice, sorella?».

«Uff! Ma quanto è barboso! Si fa per dire, per passare un paio di minuti in conversazione».

«Mi scusi, mi ha preso un attimo in contropiede».

«é imbarazzato perché sono una monachella, forse? Lei deve ampliare le sue vedute, sa? Siamo persone moderne, parliamo di tutto, oggi... A1lora, quanto?».

«Beh, se la mette così... Diciamo diecimila euro».

«Sta scherzando, vero? C'è chi darebbe centomila, magari uno sceicco anche un milione».

«Per carità, non ne dubito. Io però ho fatto un calcolo realistico, secondo le mie personali possibilità economiche».

«Facciamo il doppio e fissiamo l'incontro».

«Incontro? Ma che burlona!».

«Burlona un corno! Ventimila euro e la nobildonna è a sua disposizione».

«Che venga fuori il cameraman, io non ci casco».

«Non c'è nessuna telecamera nascosta e questo non è uno scherzo, avvocato. Lei si rivolge con fiducia alla nostra clinica da molti anni e noi vogliamo ricompensarla offrendole un'opportunità irripetibile. Ma se lei è un tale bacchettone, faccia finta che non abbia detto nulla. Beh, s'è fatto tardi - disse acidamente andando verso la porta -, e per le due lineette, si metta la suppostina».

«Ferma là, sorella. Cosa significa questo scherzo?».

«E dagli co' 'sti scherzi - disse alzando gli occhi al cielo e rimettendosi pazientemente a sedere -. Vede, il caso vuole che la contessa sia qui per eliminare delle leggerissime rughe che sostiene le siano comparse al lato degli occhi dopo lo stressante reality. Domattina sarà dunque in sala operatoria, dolcemente addormentata... Per tutto il tempo che vogliamo. Abbiamo pensato che questa circostanza avrebbe potuto interessare un uomo raffinato come lei: un piccolo assegno e domani stesso lei si toglie un bel capriccio».

«Vediamo se ho capito: pago ventimila e mi faccio la Pelanti sotto anestesia. A sua insaputa, naturalmente. é così?».

«Proprio».

«Beh, è una cosa indegna!».

«Ma che parolone! Ottimizziamo semplicemente le nostre risorse».

«E dove accadrebbe tutto questo?».

«In sala operatoria. Lontano da occhi indiscreti e sotto costante controllo medico».

«Capisco... è una proposta che avete fatto solo a me?».

«Non proprio, avvocato. Vi è una ristrettissima cerchia di estimatori che già hanno aderito senza esitazione. Si tratta di altri due o tre apprezzati professionisti che frequentano la nostra clinica da anni».

«Quindicimila».

«Diciottomila e la chiudiamo lì. Me lo fa subito l'assegnetto, però».

La mattina seguente, intorno alle nove, scesi verso il piano interrato (dove si trovava la sala operatoria) in pigiama di seta e giacca da camera. Prima di giungere in fondo alla rampa incrociai un paio di degenti che risalivano tutti allegri, uno di loro mi fece una complice risatina con occhiolino. Non appena arrivato in basso, fui indirizzato in una sala d'aspetto già popolata da una ventina di signori e forse più, tutti in eleganti vestaglie a chiacchierare amichevolmente. Colsi alcuni stralci di conversazione: «Beh, davvero non si poteva rinunciare», diceva un tizio con i baffetti alla David Niven.

«Ah, certamente. L'unico rischio è essere troppo veloci», gli rispose il vicino.

«Non sarà mica venuto qui tutto carico, vero?».

«Non sono mica scemo. L'emozione però fa ugualmente brutti scherzi, a volte».

«Ehi, ho sentito! - intervenne un infermiere basso e tarchiato che s'aggirava arcigno fra gli ospiti -. Cosa vi siete messi in mente? Quella tipa ronfa già da un'ora e mezza, non possiamo mica farla dormire fino a domani! Cinque minuti a testa e poi sgommare! Capito? A proposito, l'ingegner Carletti sta veramente esagerando! - aprì la porta della sala operatoria e cominciò a sbraitare - A Carlo, se non schioda da lì, vengo a prenderla a sediate!».

Si sentì rispondere dall'interno: «Falla finita, tappo! Con quello che ho
pagato, 'sta miciona me la monto fino a che non crepo!».

L'infermiere, inferocito, entrò in sala e ne tornò fuori in dieci secondi,
tirando per un orecchio l'anziano ingegnere seminudo.

«Cinque minuti e non di più, è chiaro per tutti?», disse fissandoci con uno sguardo da assassino. In quello stesso momento, dalla sala operatoria qualcuno chiamò: «Generale Baldanzellu!».

«Generà, è il suo momento! - intervenne ancora l'uomo - La smetta di toccarsi e suoni la carica, forza!».

Passai in sala d'attesa un paio d'ore in conversazione con alcuni degli eccitati estimatori della Pelanti. Ebbi conferma che la "ristrettissima cerchia" di buongustai era organizzata secondo la consistenza dell'offerta economica: i più generosi si facevano la signora per primi. Finalmente venne il mio turno.

«Avvocato Oliveri!», strillarono dalla sala.

«Daje Olivé, una bella botta e tanti saluti!», commentò puntuale il miserabile infermiere. Passando, lo guardai con disprezzo. Entrai mentre stavano ancora risistemando le gambe della contessa sui supporti, mi avvicinai al tavolo e ammirai le sue splendide forme, poi le palpeggiai i seni ed ebbi la prova di un vero miracolo naturale. Un dottore piuttosto anziano con un lezioso pizzetto bianco mi fece segno con la mano di stringere i tempi, mentre una donna dell'équipe- dalla sistemazione sembrava essere la ferrista - mi consegnò un kit operativo composto da profilattico Flirt alla fragola e lubrificante Trasir a base acquosa. Mi preparai in un secondo e m'infilai fra le gambe della contessa, a quel punto tutti quanti si girarono discretamente per compilare un sistemino Lottomatica.

Mi stavo facendo Andreina Pelanti di Ripalunga.

Non ci potevo credere, me la stavo proprio facendo sul serio. La possedevo con romantico vigore mentre ascoltavo in sottofondo il bellissimo Come le Viole (Gagliardi-Amendola) diffuso dal sistema audio della sala. Ad un tratto, la sentii gemere flebilmente e m'illusi che fosse merito mio; volli approfittare del suo debole segnale di vita per rendere ancora più eccitante la situazione:

«Dimmi ancora che ti piace, Andreina», dissi schiaffeggiandole una coscia.

«Chi... chi sei?», mi sentii inaspettatamente rispondere.

«Ehm, il mio nome non ha importanza...», continuai, cercando di non perdere la concentrazione. In quello stesso istante il dottore col pizzetto si girò con gli occhi sbarrati:

«Con chi diavolo sta parlando, lei?».

«Beh, con la contessa», risposi.

«Come, con la contessa! - gridò, volgendo lo sguardo su di lei - Oddìo se svegliata! Guattelli, invece di grattarti i coglioni, pompale una bomba d'anestetico prima che ci capisca qualcosa! Di corsa!».

L'anestesista, impallidito, si precipitò con la mascherina in mano.

«Che cazzo ci fai con quella, cretino! Dalla a tuo figlio a carnevale! urlò il vecchio chirurgo - Spara in vena cinquecento milligrammi di Ketarol!».

«Ma... ma, se n'è già beccata quasi due grammi... Mi sembra esagerato».

«Esagerati sono gli anni di galera che ci appiopperanno!».

«Che mi state... facendo...?», gemette di nuovo la Pelanti, mentre Guattelli la inzeppava d'anestetico.

«Non è nulla tesoro, goditi questo dolce istante», le sussurrai intensificando la mia azione. Il Ketarol, in breve, le invase ogni fibra e il suo splendido viso si rilassò, pensai che fosse più bella di un angelo. Già... un angelo: all'improvviso, almeno una mezza dozzina di monitor accelerarono i "bip" fino ad emettere un unico interminabile fischio. «Ecco, l'ho fatta godere per benino», mi rallegrai, e invece scoppiò il putiferio.

«Il polso è crollato! I1 cuore non regge! - urlò il canuto chirurgo -. La stiamo perdendo!».

«é tutta colpa tua, vecchiaccio dimmerda!», gli ringhiò Guattelli.

«Ahò, l'anestesista sei tu. Io non c'entro un cazzo!».

Dal canto mio, continuai a scopare a testa bassa, serrando il ritmo per tentare di prendermi la giusta soddisfazione prima che Andreina se ne volasse all'altro mondo.

«Marciremo in galera!», si disperava l'infermiera di sala, mentre la ferrista scivolava lungo la parete verso l'uscita.

«Rianimazione cardio-polmonare!», urlò Guattelli.

«é la fine, è la fine!».

«Zitta, stronza! Schiaffa dieci milligrammi di adrenalina nel catetere centrale! Ehi, dove sono finiti il vecchiaccio e la ferrista?».

«Se la sono data a gambe», gli risposi, senza però distrarmi. Il sibilo spettrale delle macchine dominava su tutto. Continuai: «Senta, ho l'impressione che la contessa mi si stia raffreddando sotto le mani e l'adrenalina pare che non faccia un cazzo. Qualcosa di più deciso, magari?».

«Non c'è altra scelta ... Defibrillatore! - disse, tendendo le mani verso l'infermiera e senza distogliere lo sguardo dalla paziente - Defibrillatore ho detto!».

«S'è dileguata pure quella», gli comunicai.

«Occhei, salveremo la contessa da soli», decise il coraggioso anestesista impomatando le piastre: «é facilissimo, sa? - continuò, passandomi gli attrezzi - Le metta queste sul petto e non le molli, io le do corrente».

«Ehm, intanto, posso continuare a...».

«Faccia come crede. Sarà un bel colpo però, l'avverto».

«Vabbe', proviamo e chissene frega», dissi sistemando gli elettrodi sul seno della Pelanti, nella speranza di far coincidere lo shock da cardioversione con il mio imminente orgasmo. Continuai: «Ecco dottore, glielo dico io quando tirare la botta. Ecco, ecco, ci siamo... Uno... Due... E tre!».

La scossa fu tremenda. Nell'attimo stesso in cui il flessuoso busto della contessa sobbalzò sul tavolo operatorio, uno spasmo incontrollabile provocò in me una sconvolgente estasi. In meno di un istante una sorta di bolo energetico esplose frizzandomi i testicoli per poi dilagare, seguendo il percorso perineo-spinale fino alla punta dei capelli. Sentii il cervello espandersi, e per un attimo ebbi la stupefacente sensazione d'essere permeato dalla conoscenza universale: seppi il nome segreto di Dio e la capitale della Kamchatka, ebbi svelati i confini del cosmo e la formula delle Dietorelle. A quel punto fu netta la sensazione che la dimensione spazio temporale si dilatasse all'infinito, ed ebbi la mistica visione del cantante Nicola di Bari a cavallo che, ammiccando, mi porgeva una Cedrata Tassoni. Sorseggiando il gustoso drink, mi voltai indietro e vidi la scena della sala operatoria come in un logoro film d'epoca, color seppia e senza sonoro. Mi osservai, inquadrato a mezzo busto: m'impressionarono i capelli ritti e gli occhi bianchi rivoltati all'indietro. Le spalle erano scosse da un violento tremore e la bocca piegata in una smorfia, che poteva essere di sconfinato dolore oppure di sublime godimento. Nell'inquadratura, improvvisamente, vidi Guattelli comparire alle mie spalle con uno sgabello in mano. Mi colpì, e nella pellicola, così come intorno a me, tutto si fece buio.

Petropavlovsk.

Mi svegliai con questa parola nella mente senza avere la benchè minima idea di cosa significasse. Ero steso sul letto, tutto sommato sereno, ma con un certo bruciore ai genitali. Pian piano riaffiorarono i ricordi: la sala operatoria, la splendida contessa, l'amplesso estatico. Un brivido percorse lungamente la mia schiena. Ad un tratto, qualcuno bussò.

«Avanti».

«Ehm posso?».

«Dottor Guattelli! Venga, la prego».

«Come si sente?».

«Piuttosto bene».

«Mi scusi per il colpo che le ho dato, ma si era reso necessario: dopo la scossa era rimasto sotto shock, incollato alla contessa. Ho temuto che le venisse un attacco cardiaco».

«Ha fatto quello che doveva, dottore. E, mi dica... La signora?».

«Ce l'ha fatta ed ora sta bene, grazie a Dio. Non ha il minimo ricordo di ciò che le sia accaduto».

«Meno male».

«Noi due le abbiamo salvato la vita, avvocato, ma non potremo vantarcene con nessuno, né aspettarci un suo ringraziamento».

«Già. Io una bella ricompensa però l'ho avuta. Ho sperimentato l'apice del piacere, ho avuto la visione della Conoscenza. A proposito Guattelli, le posso chiedere di farmi portare un'enciclopedia? Volume "P", cortesemente».

«Ci mancherebbe, me ne occupo subito».

Ci salutammo e dopo una decina di minuti un'infermiera sorridente mi consegnò un gran librone rilegato in pelle. Mi misi comodo e cominciai a sfogliare.

Pe... Tetrarca... Petrolio... Ecco, Petropavlovsk: capoluogo della penisola di Kamchatka' 6100 ab.


Carte Preziose

Sarebbe toccato a me, dunque, riaccendere un barlume di fiducia nel nostro partner americano e convincerlo ad allentare i cordoni della borsa per ridarci la possibilità di tirare ancora avanti la carretta. Lo capii quando l'amministratore delegato mi prese sotto braccio, come se mi fosse amico, per portarmi alla "Taverna Chiantigiana".

Ci sedemmo e un paio di camerieri si assicurarono che fossimo completamente a nostro agio. I1 capo non perse tempo:

«Lo capisci bene, Jacopo, che io alla riunione di oggi non mi posso neanche far vedere. Gli sto sui coglioni a Milland, anzi mi odia. Allora gli ho fatto credere che mi è venuta una colica renale e che sono a letto, piegato come una Graziella... Quella carogna! Ti assicuro che mi avrebbe già fatto buttare sotto a un treno, se non avessi sposato quella cozza di sua nipote».

«Milland mi sputerà in un occhio, Oliviero, sono il manager più giovane».

«Ma anche il più in gamba! Hai carisma, sei preparato, convincente e snoccioli un americano che manco ad Harward ... Jacopo, credimi, vicino a te gli altri dirigenti sembrano pupazzi del Museo delle Cere, tu sei l'unico che qui ancora abbia un po' di carica e che si possa intortare quel cowboy, é la tua occasione, fa' capire a tutti chi comanderà la baracca, quando mi ritirerò al Golf Club».

Faceva schifo Oliviero Rezzuto. Era un infido adulatore le cui tumide labbra viola tremavano tutte quando s'animava nella discussione. Lavorando al suo fianco per anni, avevo avuto modo di capire che una bella fetta dei capitali esteri finiva regolarmente nelle sue tasche, in cambio di grosse fregature.

Sta di fatto che quel porco mi offriva un'occasione unica, e m'indicava chiaramente come suo erede alla conduzione dell'azienda.

«Ti consiglio la zuppetta di legumi, caro Jacopo», disse tagliando corto.

«Forse un po' impegnativa da digerire, ma è un delirio dei sensi. E ci scoliamo pure una boccia di Bianco d'Orcia, ti farà bene per l'incontro di oggi».

Divorammo un secchio di quella squisita minestra e non risparmiammo di certo sul vino. Prima di salutarmi, Rezzuto mi raccomandò di non lasciare che lo sguardo di Milland mi suggestionasse. «Quel bastardo - diceva - ha gli stessi occhi di Clint Eastwood, ti scavano dentro. Guai a sfuggirli però, sostienili e ti sarà più facile portare a casa qualche dollaro».

Entrai in sala riunioni con qualche minuto di calcolato ritardo, Milland e tutti gli altri erano già seduti; presi posizione e piantai subito le mie pupille in quelle azzurre, dell'ospite straniero, poi iniziai a parlare direttamente in americano, sicuro e gonfio come un tacchino.

«Buongiorno a tutti. Rivederla è un piacere, Mr. Milland. I1 dottor Rezzuto la saluta dal suo letto dove, come sa, è sottoposto a cure mediche. Comincerei con...». Improvvisamente si udì un rumore sinistro, simile a quello di un enorme lavabo che si stura. M'interruppi irritato, guardando di qua e di là, in cerca dell'origine di quei lunghi gorghi minacciosi. M'accorsi invece che lo sguardo dei presenti era indirizzato verso di me: sì, perché il rumore proveniva dal mio stesso intestino. Ne fui certo con l'arrivo di un secondo gorgoglìo, ancora più sonoro e profondo, accompagnato questa volta da dolori lancinanti. Ebbi l'impressione che invisibili mani stritolassero le mie viscere, mi sentii impallidire e mi piegai su me stesso. Feci appena in tempo ad alzare una mano in segno di scusa e precipitarmi fuori dalla sala. Galoppai lungo il corridoio a chiappe serrate; solo per pura fortuna riuscii ad entrare nel minuscolo gabinetto e abbassarmi i calzoni appena prima dell'esplosione.

Passarono alcuni minuti perché mi riprendessi; ad un rivoltante esame visivo mi fu chiaro che la terribile zuppetta di legumi avesse come forato il mio apparato digerente, quasi fosse un nòcciolo di plutonio. Maledetta Taverna Chiantigiana! La sua cucina azzardata rischiava di mandare all'aria un accordo storico con Milland, la mia consacrazione al vertice dell'azienda! Per vendetta avrei spedito al ristorante l'Ufficio d'Igiene con una telefonata anonima: «Ho trovato cacche di topo nella minestra», avrei detto.

In quell'istante sentii qualcuno entrare nell'antibagno: «Jacopo, ci sei? Stai male? - Era Zeno Cacioppo, responsabile delle Relazioni Esterne -. Sbrigati, che quello stronzo di Milland ha già detto che in questo ufficio siamo tutti malati...!».

«Sì, Zeno. Non puoi capire che casino. Adesso mi do una ripulita e arrivo ... Intanto di' a quella baldracca della Guarneri di aprirsi la camicetta fino all'ombelico e servire da bere a quel cagacazzi».

«Occhei, vado».

Portai una mano al contenitore metallico al fianco della tazza e rimasi come congelato al contatto con il cilindro di cartone del rotolo, completamente privo di carta igienica. Incredulo, disorientato, tuttavia non mi persi d'animo: dopo una sommaria riflessione aprii il portafoglio e tirai fuori tutti i foglietti ripiegati, quelli che non decidevo mai di buttar via. Li avrei utilizzati per togliere il grosso e avrei poi tentato di rifinire l'operazione con alcuni biglietti da visita.

Diedi fondo a tutto il cartaceo a disposizione, ma giuro che non fu minimamente sufficiente a permettermi di ritornare fra la gente. L'unica chance sembrava essere quella d'uscire di soppiatto dal gabinetto e montare su uno dei due lavandini dell'antibagno, posti l'uno di fronte all'altro, e lavarmi, sperando che non entrasse nessuno. Scaricai lo sciacquone, mi sfilai con cura pantaloni e mutande, aprii per una decina di centimetri la porta e buttai un'occhiata al di fuori. I1 luogo era deserto, c'era silenzio, niente passi sul corridoio... era il momento giusto!

Furtivo come un gatto, uscii dal loculo e con due balzi m'arrampicai sul lavabo. Incredibile a dirsi, ma prima ancora d'aprire l'acqua, la porta si spalancò. Rimasi di stucco. Cristo santo, era Milland! Ma come diavolo c'era arrivato là? Volando?

M'appiattii contro la parete e con orrore mi vidi riflesso sullo specchio del lavabo di fronte: ero sfatto come un cadavere e in più avevo il culo dove la gente normale si lava la faccia. Per grazia divina, però, il vecchiaccio entrò a testa bassa borbottando qualcosa di spregevole sugli italiani e si diresse verso il lavello opposto per scatarrare e sciacquarsi la bocca.

Quando si ritirò su, il suo stesso mezzobusto coprì miracolosamente la mia immagine specchiata. I1 cuore mi tambureggiava all'interno della cassa toracica, lo faceva tanto forte che fui certo che lo si potesse sentire; smisi allora di respirare, smisi perfino di pensare, ed infine mi sentii... Invisibile. Invulnerabile. Non so come spiegare: era talmente grave la situazione che - certamente per autodifesa - riuscii a proiettarmi in una dimensione euforica in cui mi pareva di poter addirittura controllare gli eventi: «Non mi vedrai, yankee - dicevo fra me e me -. Io sono qui, seduto mezzo nudo nel lavandino alle tue spalle, ma tu non mi vedrai. Girerai i tacchi, infilerai quella porta a testa bassa e te ne andrai».

Avevo una probabilità su diecimila che ciò accadesse, eppure accadde.

A capo chino, infatti, quello uscì dai bagni, sempre borbottando cattiverie in slang e senza avere il minimo sospetto che vi fosse stata anima viva in quei dieci-dodici metri quadri all'infuori di lui. Quando sentii i suoi passi allontanarsi, cominciai a ridacchiare sommessamente, in modo nervoso, e finalmente potei cominciare a lavarmi senza pudore. In quel momento esatto, Milland, come un maledetto fantasma rientrò inaspettatamente per sputare un ultimo residuo polmonare nel lavandino. Davanti allo specchio, si pietrificò.

Lo vidi chiaramente, con un filetto di bava penzolargli ancora dalla bocca, restare fulminato davanti alla mia immagine riflessa, che dovette sembrargli demoniaca. Non tentai nemmeno di reagire, rimasi a gambe squadernate e con una risata isterica stampata sul volto cereo. Milland si girò. Lentamente, come se non volesse credere che quella folle icona materializzata sullo specchio avesse un originale nella parete opposta.

«My God. Oh, my God...», furono le uniche parole che riuscì a pronunciare prima di farsi il segno della croce. Esitò ancora un attimo, impietrito davanti a quella scena incomprensibile, e poi se la diede a gambe. Io intanto, nel bel mezzo di un'orgia emotiva, scoppiai in un'impressionante risata e gli urlai dietro: «Ehi, Milland, vecchio taccagno, sgancia i soldi!».

Un istante dopo, come un orsacchiotto meccanico che esaurisce la carica, m'accasciai nel lavandino con le braccia pendule e la testa fra le ginocchia, piangendo disperatamente. In meno di mezzo minuto sentii accorrere frotte di gente nel corridoio e, purtroppo, cominciai anche ad avvertire i dolori squassanti dell'anginapectoris. Da mesi non mi affliggeva più, e purtroppo questo ritorno mi sembrava particolarmente violento.

In men che non si dica, nel piccolo ambiente si concentrò tutto il personale, inclusi un'apprendista segretaria e un giovane barista con la guantiera ancora in mano.

«Che cavolo succede qui? - esclamò Ciambelli, direttore amministrativo -. Oh, madonna mia! Ma... Ma che ci fa Vernazza accasciato nudo nel lavandino?».

«Sta male, non vede? - gli rispose qualcuno - é svenuto. Dio mio, cosa possiamo fare?».

Con enorme fatica, alzai di qualche centimetro la testa.

«I1 cuore... - riuscii a dire con un fil di voce -. La medicina salvavita... Andatela subito a comprare...».

«Come si chiama? Forza Vernazza, dicci il nome della medicina!».

«Nitrolin... Nitroangin.. Non ricordo... Ho la ricetta... ».

«Dove sta? Dove sta, maledizione?».

«Nel portafogli... Ci sono delle carte ripiegate... ». Nello stesso momento in cui pronunciavo quelle parole ricordai la fine che avevano fatto tutti i miei foglietti... E mi preparai al peggio.

La società fu venduta per quattro soldi e poi demolita, una trentina d'impiegati rimasero a spasso. Io me la cavai a buon mercato, furono sufficienti un paio di by-pass perché sopravvivessi ma, di certo, la mia carriera fu tragicamente segnata da quell'episodio: oggi consegno i pacchi col motorino, la mia zona è sempre il Centro, che conosco come le mie tasche. Mi sono dovuto far crescere la barba e anche una chioma fluente, per non farmi riconoscere in uffici nei quali ero ben noto. Una settimana fa, però, una segretaria intenta a firmarmi la ricevuta di una consegna mi guardava con insistenza... Andando via, mi fermai sul pianerottolo ad ascoltare dietro la porta. Sentii che diceva ad una collega:

«Quel morto di fame che porta le buste ha una faccia familiare, ci hai fatto caso?».

«Sei l'unica a non averlo ancora riconosciuto... », rispose l'altra, e intonò un odioso motivetto:

Sono Jacopo Vernazza,
con me al cesso si stramazza.
Sono il capo di una truppa,
rovinata da una zuppa.
Oh yeah!


20081117

Vedi sotto

Sotto, a scelta:

L'adulazione è come l'acqua di Colonia: è da annusare, non da bere (losh Billings)

Nessuno merita lodi per la sua bontà, se non ha la forza di essere cattivo. (La Rochefoucauld)


La volpe e il corvo - Fedro

Chi si compiace di essere lodato da ingannevoli parole paga il turpe fio con tardivo pentimento.

Un corvo, volendo mangiare un pezzo di formaggio portato via da una finestra, mentre se ne stava su un alto albero, ecco che lo vede una volpe che senz'altro cominciò a dirgli:

«O qual'è la lucidezza delle tue penne, o corvo!
Quanta leggiadria hai nel corpo e nell'aspetto!
se tu avessi la voce, nessun uccello ti supererebbe».

E quello stolto, volendo mostrare la voce, lascia cadere dalla bocca il formaggio, che lestamente l'astuta volpe rapì con avidi denti.

Allora gemette lo stupido corvo ingannato.


20081110

Qualcosa mi inventerò



Mi ha stupito che il testo fosse scritto da Ligabue perché è piuttosto raro che un uomo abbia abbastanza sensibilità per riuscire non tanto a capire come una donna possa vivere un amore, quanto a mostrare lui stesso il proprio lato femminile.

Ecco, credo che questa sia una delle qualità che più avvicina un uomo ad una "perfezione emotiva", che è la condizione fondamentale per la comprensione dell'altro sesso.

In realtà Ligabue è stato, a mio parere, piuttosto diplomatico...

Molto attento cioè a non danneggiare la propria "categoria di appartenenza":

Le mie amiche sono amare
se si parla un po’ d’amore
tanto ognuna sa comunque
quel che sa.


Cioè? Che cosa sanno?

La prima volta che l'ho sentita l'avevo sottovalutata, giudicata molto generica, adattabile a tutto il genere femminile.

Ho cambiato idea.

Adesso la trovo opportuna per quelle donne che hanno sofferto, che difficilmente scenderanno a compromessi, che pretendono un ritorno paritario di quello che sanno donare, che hanno raggiunto una certa maturità sentimentale.

Ci risiamo: generica.

Mi piace molto lo stesso perché lì in mezzo ci sono anch'io, che "guardo avanti e non mi sbaglio" e che "so precisamente cosa c’è per me".

Però quanta paura quando arriverà quel momento.





20081103

Questo gioco fa (o non fa) per chi?



Uno dei fumetti sotto forma di film cinematografico che preferivo in assoluto.

No.

Volevo dire che questo film è come se fosse un fumetto visto che certe mosse rocambolesche risulterebbero a dir poco improbabili da eseguire nella realtà.

Nel caso in cui fosse nato come "fumetto", il discorso sarebbe diverso, ecco cosa intendevo.

Col tempo è diventato qualcosa di più...

Direttamente dal Giappone la versione incensurata e a colori della "Resa dei conti" tra la protagonista e gli 88 folli.

Il momento che preferisco in assoluto dura appena 30 secondi: 6.30 - 7.00

Eh sì che quello è proprio il massimo della libidine!

;)





Ripeti Paganini: NON HO CAPITO.







20081102

Amici miei



Non che sia uno dei film che abbia amato in maniera particolare forse perché rappresenta una buona parte di realtà comportamentale e di conseguenza un vero e proprio dramma della società, di cui sono pronta a testimoniare in qualsiasi momento.
Ne riporto uno spezzone più che altro per rendere omaggio a Mario Monicelli, visto anche che, tempo fa e con la complicità di amici, partecipai alla festa a Viareggio del suo 80° compleanno.





Si da il caso, però, che abbia sempre avuto l'abitudine di conservare biglietti, inviti, tagliandi del cinema e del teatro, di ogni rappresentazione che ho visto nel corso della vita, a cominciare dal "mio" primo film visto al cinema con i compagni di classe di allora: Innamorato pazzo (1980) di Adriano Celentano.





Il film che però accese le mie fantasie di voler diventare un'astronauta fu E.T.
Purtroppo, proprio di questo, ho perso ogni riferimento che mi riportasse alla mente il ricordo di quella serata con i miei amichetti...
Sarebbe veramente importante per me ritrovarlo quanto prima.





20081030

Anche questa sembra scritta oggi...







Avanti... !



Ciao.

Sono Valentina, chiamo da Firenze e vorrei dedicare questa canzone a tutta la III° C del Liceo Scientifico "Leonardo Da Vinci", ad Antonello, Michele, Davide, Francesco e a tutti quelli che mi conoscono.

Grazie.





20081017

The right thing



Mi sembrava la serata giusta per scriverlo perché vorrei che da stasera si chiudesse un ciclo e approfitto del fatto che proprio stasera, essendo fisicamente distrutta, riesco a concentrarmi molto meglio e in maniera più concisa sui fatti, senza fronzoli, come piace a me.

Pino lo conobbi tramite una pittrice, tale N.A., che me lo presentò durante una sua esposizione in una galleria nei pressi di Porta a Prato, credo fosse nel 1999.

Era un uomo di mezza età, regista teatrale per diletto, sempre indaffarato o
incasinato tra la miriade di idee e copioni decisamente originali.

Frequentavo già da diverso tempo un gruppo di improvvisazione teatrale e mi entusiasmava la possibilità di fare esperienze diverse e conoscere gente nuova.

L'occasione fu una particina per la "Festa del Gatto" (ironia, ironia...) di cui non conoscevo l'esistenza, nel periodo di febbraio.
Non si svolgeva proprio in un teatro ma c'era comunque un palco e una parte da recitare.

Andò bene, ero in sintonia con gli altri del suo gruppo e mi richiamò per altre particine semplici.

Pino, tanto per far capire il genere di persona, era capace di "raccattare" chiunque capitasse per strada e senza conoscerlo minimamente sbatterlo dentro
uno stanzino a fare il "tecnico delle luci", e tutto questo poco prima di andare in scena: "tu improvvisa" diceva a chi si lamentava e questo doveva bastare perché non so come fosse possibile ma riusciva a convincerti sempre.

Una sera mi chiamò e mi invitò a casa di una sua vecchia amica, una importante diceva, una poestessa che scriveva fiction per la televisione e collaborava con diversi poeti conosciuti.

Vieni vieni la devi conoscere ha una poesia scritta tempo fa le sembra adatta per una mostra sta cercando una giovane donna che la reciti per una serata dedicata alla Luna (ironia, ironia...) l'ambiente è bellissimo sai le Murate ci sei mai stata c'erano le suore un tempo vedessi al soffitto ci sono le grate sembra una prigione tu praticamente sbuchi all'improvviso in mezzo ai quadri la reciti e finisce lì.

In un appartamento nella zona di Campo di Marte conobbi allora Maria Pia Moschini.

Gentile e accomodante, mi spiegò brevemente il significato di quello che avrei dovuto recitare, leggemmo la poesia insieme, e mi disse solo:

"Falla tua, questa sei tu".

In quel momento non potevo certo immaginare che la mia vita avrebbe preso veramente la direzione descritta e, grazie a Dio, anche l'avvio a quella conclusione.

Mi preparai da sola e non chiesi a nessuno di venirmi a vedere, io credo di averlo fatto apposta per potere, un giorno, incolpare qualcuno di avermi lasciato sola in quel momento, per potermi compatire e piangere in solitudine vinta dal mio vittimismo perché se voglio sì anch'io sono capace di fare la vittima.

Preparai la "valigia di scena", una giacca nera, una gonna stretta, tacchi alti, un cappello da uomo, una camicia bianca, una cravatta, un libro, occhiali da intellettuale e un tulle sottile.

Mi ricordo quella sera, in una piazza attigua, sola come un cane, che ripassavo la parte tremando di paura ed emozione e, come succede sempre, non ricordavo assolutamente niente.

Quando, qualche giorno fa, ho riletto il brano ho pensato proprio all'inizio di questa mia avventura virtuale, alle scelte che ho fatto, a come ero quando tutto è cominciato e a come sono adesso, a come sto lottando per arrivare a quel tipo di "perfezione dell'anima".

Non manca molto.

Un lungo pianto liberatorio.

UNICUM (Intravisioni) - scritta a Firenze il 13/03/1999, Maria Pia Moschini

UNICUM

Fuori tira un vento d'azzardo: ti trascina, ti porta come foglia.
Ho smarrito la strada molte volte prima di trovare la porta,
la Gran Porta.

è scritto qui, l'inchiostro ha perduto colore per la pioggia, le lacrime.
Il dolore di non sapere chi sono.
Da quanto tempo? Il giorno che decisi di cercare me stessa è lontano,
eppure sembra ieri.
So come mi sono persa.
Camminavo convinta d'esser io, quando da una vetrina qualcuno mi fissò
con viso d'altri.
Non mi conobbi. Sapevo d'esser lì, nell'immagine a specchio,
ma non tornava il conto.

Un uomo mi guardava, l'uomo che è in me, il mio apparire
forte a tutti i costi.
Ho capito in un soffio che mi era stato chiesto per troppo tempo
di dar prova in duelli di una forza segreta
che non ebbi nel nascere.
Come animale avvezzo alla battaglia, chiusi il mio esser donna
dietro una sigaretta, in un cappello...
anche il tono di voce era cambiato.
Piccola cosa, invece, il Me Bambina gridava di paura
in un cantuccio d'anima.
Chiedeva di essere visto.
Poi, di colpo, la scelta.

Essere donna fino in fondo. Reggicalze, capelli, trucco, sì trucco,
perché sotto la maschera adocchiante
batteva un cuore trepido, non certo di cocotte.
Ma gli uomini volevano una me transitoria,
un bell'oggetto morbido su cui giacere.
Tornavo dentro me stessa, come vinta.
Non capivo l'inutile equilibrio del tacco alto, il seno in trasparenza.
Mi piacevo? Chissà... Stavo chiusa dentro un piccolo armadio,
cercando nel mio cuore la perfetta adesione
fra essere e apparire.

Poi naufragai in un libro. Fu per rendermi a tratti interessante.
Un intellettuale? Neanche. Una moda, un sentire le parole degli altri
per salire dal corpo a un'altra meta.
La mente o altro.

Cambiavo nome. Marty fu il mio maschile, poi Martina la bella,
Martha con l'acca come un respiro, l'erudita.
La saggia.
Il nome era un cappello. Marte, dio della guerra,
non trasferiva in me la forza,
il gesto che ci rende vincenti.
Io rimanevo chiusa dietro finestre, aspettando
la notte.
Poi, qualcuno, mi spinse in questo luogo
come in pellegrinaggio, a cercar l'anima,
l'identità, me stessa.

Sono partita ormai da tanto tempo senza arrivare
ed ora che son qui mi sento persa.
Niente è come pensavo. Nessuno che mi accolga.
Questi soffitti così alti, lontani, una prigione a sbarre
un luogo oscuro.
Dov'è l'essenza che mi rileva, l'essenza del mio dire?
Spogliata di tutte le difese, sono qui pellegrina ferita, inerme,
ritornata ad un grembo senza madre.
O questo era il mio fondo, la base di un percorso
che il dolore ha tracciato fino all'approdo?

Spogliarsi di ogni travestismo, fino alla nudità vergine di un pensiero
all'essere se stessi fino in fondo.
Esco dalla voragine, dal buio nascondimento,
ora incontro me stessa davanti a tutti, senza vergogna alcuna.
Sono così, guardate, donna, uomo, cocotte, bambina sola...
sono così un tuttuno, nel silenzio.

UN UNICUM

Sono me stessa nell'impronta del piede, nel segno della mano.
Senza specchi. Me stessa negli occhi vostri,
nel mio essere accolta in mani d'altri.

Si ritrova chi prima si è perduto.

L'uscita è da noi stessi come un fiume che trasporta all'origine.
Chi siamo? Siamo tutti e nessuno a fasi alterne,
ma non c'è più terrore. Il mondo è un pulviscolo lento,
senza certezze
è il navigare l'unica condizione al timone di un nulla.

Copritemi di un velo, rinascerò mutata. Io farfalla di me,
libera, in volo, senza peso né odore.

Un fiore, allora... un fiore.


Grazie Maria Pia.


20080929

"Pene” di morte



Tratto da:

La donna sulle dune - Anais Nin

Era a Parigi quando avevano impiccato un radicale russo che aveva ucciso un diplomatico …
A quei tempi per chi commetteva reati gravi esisteva ancora la pena di morte. Generalmente veniva eseguita all’alba, quando nessuno era ancora alzato, in una piccola piazza vicino alla prigione della Santé, dove ai tempi della rivoluzione si ergeva la ghigliottina …
Tutti gli studenti e gli artisti di Montparnasse, i giovani agitatori e rivoluzionari avevano deciso di assistere all’esecuzione. Aspettarono alzati tutta la notte, ubriacandosi. Lei aveva aspettato con loro, si era ubriacata con loro, e si sentiva molto eccitata e impaurita. Era la prima volta che stava per vedere impiccare qualcuno. Era la prima volta che era testimone di una scena che si era ripetuta molte, molte volte durante la rivoluzione. Verso l’alba la folla si spostò verso la piazza, avvicinandosi il più possibile nonostante il cordone di poliziotti, e si raccolse in cerchio. Lei si sentiva trasportata dalle ondate di folla e di gente che spingeva verso un luogo che distava dieci metri dall’impalcatura. Stava là, spinta verso il capestro, osservando affascinata e terrorizzata. Poi un movimento della folla la allontanò dalla sua posizione. Poteva ancora vedere stando in piedi. La gente la schiacciava da tutte le parti. Il prigioniero fu introdotto con gli occhi bendati. Il boia lo aspettava, poco distante. Due poliziotti tenevano l’uomo e lentamente lo portavano su per le scale del patibolo. In quel momento si accorse di qualcuno che premeva contro di lei più per ardore che per necessità. Nella condizione di tremore e di eccitazione in cui si trovava, quella pressione non era spiacevole. Il suo corpo era eccitato. Comunque, si poteva muovere a malapena, inchiodata come era dalla folla curiosa …
Due mani le circondarono la vita, e sentì nettamente il corpo di un uomo, il duro desiderio di lui contro il suo culo. Trattenne il respiro. I suoi occhi fissavano il russo che stava per essere impiccato, e che la rendeva dolorosamente nervosa, mentre nello stesso tempo due mani raggiungevano il suo seno e lo schiacciavano. Si sentì stordita da sensazioni contrastanti. Non si mosse, né girò la testa. Una mano stava ora cercando un’apertura nella gonna e trovò i bottoni. Ogni bottone che la mano slacciava la faceva ansimare di paura mista a sollievo. La mano aspettò, temendo una protesta, prima di continuare con il bottone successivo. Lei non si mosse. Poi con una destrezza e una prontezza che non si sarebbe mai aspettata, le due mani le fecero girare la gonna in modo da spostare l’apertura di dietro. In piedi tra la folla, quello che ora poteva sentire era un pene che si introduceva lentamente nell’apertura della gonna. I suoi occhi rimasero fissi sull’uomo che saliva sul patibolo, mentre a ogni battito del cuore il pene guadagnava terreno. Era passato attraverso la gonna e aveva aperto una fessura nelle mutandine. Come era caldo e solido e duro contro la sua carne. Ora il condannato era sul patibolo e il nodo scorsoio gli stava passando intorno al collo. Il dolore provocato da questa visione era così grande da rendere il contatto carnale un sollievo, una cosa umana, calda e consolatoria. Le sembrava che quel pene che si agitava tra le sue natiche fosse qualcosa di stupendo che si aggrappava alla vita, alla vita mentre la morte era così vicina … Senza dire una parola, il russo infilò la testa nel cappio. Il corpo di lei tremò. Il pene si muoveva tra le soffici pieghe delle sue natiche, facendosi inesorabilmente strada verso la sua carne. Lei vibrava di paura, ed era come una vibrazione di desiderio. Come il condannato si trovò lanciato nello spazio e nella morte, il pene vibrò dentro di lei, emettendo a fiotti la sua calda linfa. La folla le spinse l’uomo contro. Smise quasi di respirare, e, mentre la sua paura si trasformava in piacere, in piacere selvaggio sentendo la vita mentre un uomo stava morendo, svenne.


Potrei mettermi a scrivere di come il raggiungimento della morte va di pari passo a quello dell'orgasmo o dell'erotismo come protesta al potere, o ancora lasciarmi trascinare dal confronto della morte (impiccagione) con l'immortalità della vita (sperma).

Non ci penso neanche, troppo difficile, non ne sarei capace.

La verità è che trovo questo passo terribilmente eccitante.

ps: ogni riferimento a fatti, persone, nazionalità è puramente casuale.