20100509

L'enigma della scatola di latta (1)

Julie, l’ho trovato. Era nell’ultimo cassetto della scrivania di papà, ripiegato con cura e riposto nella scatola di latta... te la ricordi? Il viaggio è stato interminabile e sono troppo stanca adesso per i particolari. Ci sentiamo domattina.
Un bacio.

Si soffermò qualche secondo a rileggere il testo della mail prima di inviarla, un testo essenziale e sbrigativo com’era il suo carattere. Finì con calma la sua birra guardandosi intorno. Non le importava niente di chi fosse con lei a condividere la solitudine in quel modesto locale di periferia e neanche le passò per la testa che qualcuno avrebbe potuto riconoscerla. Era attratta dai muri. Da bambina passava molto del suo tempo a fantasticare di fronte all’enorme parete bianca della sala da tè, quella che papà chiamava la stanza delle donne. Era per lei un infinito foglio bianco da colorare con le sue fantasie. Alle volte si immaginava un mare in tempesta con onde altissime e ne percepiva così profondamente la forza distruttrice che si spaventava. Eppure, puntualmente, ritornava ad immaginare la stessa potente natura. Altre volte, in giorni di attesa interminabili, vedeva apparire in mezzo a colline verdi e spoglie un solo albero con rami carichi e piegati dal peso di ciliegie sane e dolci: unico e irraggiungibile.
Si alzò dalla sedia lentamente e sentì un lieve battito alla tempia sinistra: c’era da aspettarsi l’ennesima emicrania con il peso di quella giornata così carica di tensioni. Ancora un piccolo sforzo e presto si sarebbe coricata nel suo letto di bambina. Sempre che riuscisse ad addormentarsi… Con grande forza di volontà aveva finalmente deciso di non portare con sé l’amico Johnny Walker. Ce l’avrebbe fatta, stavolta.

Lo squillo del telefono, una rapida occhiata alla sveglia: otto meno un quarto…troppo presto per essere un qualunque sabato mattina. Ma in fondo che importava? Tanto non aveva chiuso occhio tutta la notte. Pensava e ripensava alle parole da usare, a quale sarebbe stato il momento più giusto, a quando sarebbe arrivato quel momento. Non sopportava più quell’assurda situazione e ormai aveva deciso.

Coraggio.

Lo lasciò squillare un altro po’ per dare l’idea che stesse dormendo.
«Buongiorno amore. Scommetto che sei ancora a letto… come fai ad avere sempre così tanto sonno? Sei felice che ti ho svegliato? Ti ricordi che giorno è oggi vero? Sono così eccitata all’idea… pronto?». Una delle cose che proprio la mattina non sopportava era la voce squillante e acuta di Julie, quel suo entusiasmo perenne da eterna ragazzina innamorata. «Ci sono… scusami ma in effetti stavo ancora dormendo… a che ora è l’appuntamento?» «Alle dieci, di fronte al nuovo palazzo di Giustizia… che fai, mi passi a prendere?» E perché mai? Non ce n’era nessun bisogno visto che abitava nei paraggi «ma certo… che razza di domande fai? Ci vediamo da te»; «Ti rendi conto che oggi potrebbe essere il grande giorno? Ok, mi calmo e aspetto… ti amo.»
Si alzò di scatto, si spogliò velocemente di fronte allo specchio per osservare tutti i lati del suo corpo nudo: non male se non fosse stato per quell’accenno di pancia che rovinava l’intero panorama. Provò a trattenerla in dentro: tutta un’altra cosa.
E meno male che le donne trovavano il suo addome sexy… maledetta birra.
Mentre scendeva in garage per raggiungere l’auto, sentì dietro di sé una voce delicata che pronunciava il suo nome. Naturalmente l’aveva riconosciuta quella voce e sarebbe più giusto dire che non l’aveva mai dimenticata, ma il suo istinto avrebbe suggerito una poco onorevole fuga tanta era l’agitazione che provava.

Coraggio.

Si voltò. Marie occhi negli occhi meno di un metro distanti l’uno dall’altro: «Allora è vero che ci sei… com’è andato il viaggio?» chiese «Bè, a parte una temperatura costante di meno 25 gradi al sole, che non spiccicavo una parola della lingua locale e che il cibo era schifoso… direi benissimo.» Marie sorrise e anche se non avrebbe voluto farlo capire era decisamente contenta del suo ritorno. «Partirai ancora, immagino»; «Io? Non credo… devo parlarne in ufficio… cioè non è la vita che fa per me… comunque dovresti andarci anche tu in Cina, anzi se capita l’occasione giusta posso raccontarti la mia esperienza nei dettagli…»; «Ma certo che ci andrò, la prossima estate magari! Ci vediamo allora».
Era quello che voleva sentirsi dire. Lanciare il sasso e nascondere la mano era la sua specialità, ne aveva fatto una specie di tattica artistica del corteggiamento. Aveva sempre funzionato con tutte, perché con lei sarebbe dovuto essere diverso? «Sicuro che ci vediamo… siamo vicini di casa.» disse con tono indifferente mentre si avviava a scendere l’ultima rampa di scale. «Ah… Alex? Giovedì sera tutta la combriccola va al Royal… se non hai altri impegni puoi essere dei nostri».
Sì che ci verrei, anche adesso, soprattutto adesso.
«E chi lo sa? Da qui a giovedì… ciao».


La prima cosa a cui pensò era all’ufficio. Si sentiva insostituibile non per vanità, ma per pura sicurezza e amava troppo tenere la situazione sotto controllo perché non fosse il primo pensiero di quella giornata.
L’ìdea sarebbe stata quella di alzarsi velocemente, vestirsi, prendere quello che doveva e piombarsi in città. Aveva portato a termine quella che considerava a tutti gli effetti una missione e non sentiva alcun affetto per quella casa vuota. I ricordi che conservava erano solo quelli per suo padre e una breve infanzia felice. Julie se n’era andata presto a vivere in città esortandola a seguirla ma come avrebbe potuto abbandonare suo padre dopo quella sera?
Il telefono squillò alle 8 un quarto. Lo lasciò suonare e fece una doccia calda. In auto provò a chiamare Julie per avvertirla che tra meno di due ore sarebbe arrivata a destinazione ma prima voleva passare da Clarissa.
Se n'era andata come al solito senza dirle niente e stranamente cominciava a provare una sorta di rimorso per quell'essere sempre scostante e complicata.

Clarissa la vide parcheggiare la moto Honda nel vialetto e già non sapeva come comportarsi. Un mese senza avere uno straccio di notizia ma quello che più la faceva incazzare erano le prove del loro gruppo saltate per l'ennesima volta. Andò ad aprire la porta e l'aspettò sulla soglia.

Silenzio.

«Entra... ti sei cacciata nuovamente in qualche guaio? Che razza di fine hai fatto?». Si morse il labbro inferiore. Sapeva che con lei era perfettamente inutile fare domande, avrebbe parlato quando e se ne avesse avuto voglia. Odiava quel lato del suo carattere ma la conosceva da troppi anni per potersene lamentare.
Come previsto non ottenne risposta.
Andò in camera da letto, aprì il terzo cassetto dell'armadio e prese uno scialle di seta nero che lasciò cadere sul tappeto.
Preparò il caffé mentre sentiva insistente lo sguardo di Elisabeth che seguiva ogni suo movimento sempre in rigoroso silenzio, lo sguardo stanco.
La fece alzare e l'accompagnò nel soggiorno, le accarezzò il viso e le tolse lentamente la maglietta, la fece stendere sul tappeto e girare bocconi. Prese lo scialle di seta e le legò strettamente i polsi dietro la schiena. Arresa e docile, Elisabeth si lasciò spogliare completamente. Nel momento in cui il fazzoletto le bendò anche gli occhi si rilassò del tutto. Era troppo tempo che non sentiva le mani di Clarissa che la giravano sulla schiena, i suoi baci morbidi sulla pancia, le sue dita che le allargavano le gambe.

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