20121102

Mosca

Di Micheal Jackson ne avevamo parlato così, tanto per sciogliere il ghiaccio, non era poi tanto importante che a me non piacesse per svariati motivi, ma lui sentì il bisogno di farmi cambiare idea.

Ero stanca. Dopo quattro anni filati di libera lotta mentale sentivo il bisogno di rifugiarmi in un luogo virtuale defilato e anonimo. Mi soffermai ad osservare per qualche giorno un social di seconda categoria e, quando capii che sembrava fosse fatto apposta per utenti fuggiti dal ghetto, mi aggregai.

Mosca è una città puttana. Troppo diversa da me, si divertiva a spengere i miei focosi entusiasmi con secchi di acqua gelata. Prima mi attirava in rifugi semi luminosi (poiché la troppa luce non fa per me), mi convinceva a restare, mi baciava dolcemente il collo, me lo cingeva. E poi stringeva. Mi osservava soffocare mentre scalciavo e piangevo e solo allora decideva di lasciarmi andare.
Tanto lo sapeva già che sarei tornata.
E il gioco ricominciava.

Attirò ben presto la mia attenzione con i suoi pensieri carichi di pioggia e la sua intimità incomprensibile. Mi sentivo "pedinata" ma davo la colpa al mio passato ed alla paura di essere diventata irrimediabilmente paranoica.
In punta di piedi, con la leggerezza di un acrobata, si insinuò nel mio monolocale virtuale. Mi osservava da una porta socchiusa, dalla finestra di fronte nascosto da una tenda consumata, mentre io facevo finta di non aver capito.

Mosca mi aveva trovato anche lì. Aveva preso altre forme ma io l'avevo riconosciuta e già mi sentivo bagnare tra le gambe. Decisi di attaccare per difendermi, io con la spada sempre pronta, la lucidai e attesi la sua mossa.
Dolcissima e decisa mi porse il fodero ma prima la accarezzò, si tagliò appena e mi offrì una goccia del suo sangue.
La lasciai lì, da sola, ostentando una falsa sicurezza e altera me ne andai.
Tanto lo sapevo già che sarebbe tornata.

Lui era lì, mi aspettava e mi invitava a giocare. Lasciala stare Mosca, mi diceva, scendi con me, c'è un posto che ti voglio mostrare, vieni a vedere come sono io.
Le (sue) scale in discesa erano ripidissime, dovevo aggrapparmi alle pareti per non cadere rovinosamente a terra. Scendevo piano piano e pensavo che stavolta no, non avrei avuto la forza di rialzarmi ancora, non in quel momento.
Il suo io era scuro più della notte più nera e gli servivo per fare luce, ma una parte di lui era tentata di imprigionarmi lì, spegnermi e rendermi simile. Sembrava che mi conoscesse, che sapesse dei miei maestri mafiosi, feccia della peggior specie, sapeva che mi avevano allevato a bastonate e quanto fossero stupiti ogni volta che mi rialzavo e mi rimettevo nuovamente in posizione di combattimento. Avanti, colpite!

Mi feci aspettare parecchio, lui con la valigia già pronta non ebbe difficoltà a convincermi e partimmo: Mosca.
Non ci volevo credere.
Mi lasciai avviluppare in un abbraccio morbido e tristissimo e in quel momento, forse, lo avrei seguito fino all'inferno.
Ma lui mi accompagnò sulla soglia e mi chiuse piangendo la porta in faccia. Me ne andai sapendo che non aveva avuto il coraggio di dannarmi ad un destino di amore e morte e lasciò una canzone al posto suo.
Lo amai disperatamente per un momento.

Non ti fidare mai di Mosca, è una squillo di lusso che ti invita a godere, gettandoti in un letto sfatto con altri come te, ma lei non partecipa. Mai.

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