Visualizzazione post con etichetta Cervelloni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Cervelloni. Mostra tutti i post

20091112

BH




Tratto da:
Jerome diventa un genio - Il segreto dell'intelligenza, Eran Katz

«La cosa migliore da fare è pregare» disse rivolto a Jerome, che era lì in attesa.

Jerome assunse un'espressione cinica. «Josik» disse con tono agitato. «Ancora non ti è chiaro, eh? Io non sono il tipo che si mette pregare! Può darsi che Dio sia d'aiuto a te, ma con me è meglio che non ci si metta. Sono andato in sinagoga una volta sola in tutta la mia vita. Era lo Yom Kippur (Letteralmente "Giorno della conciliazione". È considerato il giorno più sacro dell'anno. Gli ebrei devono digiunare e pregare tutto il giorno chiedendo a Dio di perdonarli per i loro peccati), e non credo di aver fatto una grande impressione su di lui. Migliaia di persone sono andate in sinagoga più di quanto abbia fatto io, quindi sono sicuramente prima di me, nella fila».

«Questo non è vero» rispose Schneiderman. «Non è mai troppo tardi...» Ma il rabbino mise una mano sul braccio di Schneiderman per dirgli di non continuare.

«La preghiera è come un mantra, come abbiamo già detto» esordì a sorpresa. «Se non credi in Dio, avrai fede in qualcos'altro. Sai che non sei solo. Se non hai timore di Dio, la preghiera può comunque aiutarti nella concentrazione. Prega la tua forza interiore, la tua fede in te stesso. La preghiera è una dichiarazione d'intenti. Quando ad esempio dici: "Dio dammi un cuore puro e uno spirito giusto" in verità stai dicendo che, in un certo senso, sei "fresco e pronto per la battaglia", la battaglia dei libri e dello studio. Anche se non sei una persona di fede, sei d'accordo con me che questa frase suscita in te qualcosa di positivo?»

«Be' sì, in termini teorici».

«Nell'ebraismo esiste una preghiera specifica per ogni azione. Prima di mangiare ci si lava le mani e si benedice il pane. Prima di partire per un viaggio recitiamo la "Preghiera del viaggiatore" e prima di andare a dormire diciamo lo Shm'a (Preghiera che gli ebrei recitano tutte le mattina quando si alzano e tutte le sere prima di andare a dormire: "Ecco, Israele: il Signore è il nostro solo e unico Dio"). L'obiettivo di queste preghiere è quello di aiutarci a concentrarci sul compito che ci aspetta, di allontanare l'attenzione delle altre cose in modo da riuscire a concentrarci su quello che stiamo per fare.
Le preghiere dicono: non ti distrarre! Dedica tutto te stesso e concentrati sul percorso che dovrai compiere, sul cibo che avrai di fronte. È inutile dire che questa concentrazione aiuta la digestione, migliora l'attenzione di chi deve guidare e, cosa che ha maggiore attinenza con la nostra conversazione, innalza il livello di efficacia dello studio».

«E che preghiera dici tu?» chiese Jerome al giovane studioso.

Schneiderman sorrise.

«Tante. "Eterno amore" o "Dai ai nostri cuori la sapienza" per esempio. Vengono dalla preghiera della Shemonè Esrè (Letteralmente "18". Chiamata anche Amidah, che significa "in piedi". Fa parte delle preghiere quotidiane, che si recitano tre volte al giorno)».

Jerome ci guardò sconsolato.

«Mi sentirei un po' un ipocrita se dovessi mettermi a pregare. Non solo non ho mai rispettato nessuno dei comandamenti, adesso mi metto pure a chiedere a Lui di aiutarmi a studiare? Sarebbe come avere una bella faccia di bronzo, non trovi?»

«Non necessariamente» rispose a sorpresa Itamar. «Credimi, sei certamente una persona che merita l'intervento divino» sorrise.

Jerome gli dette un'occhiata sorpresa.

«Allora, guarda: non hai ucciso nessuno né rubato mai nulla» spiegò Itamar. «Hai onorato tua madre e tuo padre e rispettato molti altri comandamenti, e fatto buone azioni dal profondo del cuore e seguendo la logica che ti guida. Quindi, anche se non sei un timorato di Dio, Dio ti vede e ti ascolta. Almeno, questo penso accada per chiunque rispetti le regole comuni dell'umana decenza».

«Una volta ho rubato dei cioccolatini in un supermercato».

«Niente di che».

«E un'altra volta non ho restituito i soldi quando ho ricevuto troppo resto».

«Ma sì, dai...».

«E una volta ho investito un gatto».

«Sono cose che succedono».

«E anche un cane».

«Anche questo succede».

«E un pinguino».

«Hai investito un pinguino?!»

«O forse era una suora, non mi ricordo». Sorrise. «La sai anche tu questa, vero Josik?»

«E comunque» continuò Itamar, ignorando Jerome «puoi sempre inventarti una preghiera personale, un mantra; una frase importante alla quale credi davvero e che ti infonda una specie di gioia e di motivazione a iniziare qualsiasi cosa tu abbia deciso di fare. Che ti metta dell'umore giusto. Prova».

Jerome sorrise tra sé e sé e rivolse lo sguardo al cielo, come per riflettere su qualcosa. «Interessante» disse. «Ci penserò su».

«E un'altra cosa» aggiunse il rabbino. «Avrai forse notato che gli ebrei molto religiosi spesso scrivono le lettere "BH" in cima alla pagina».

«Beezrat Hashem: significa "con l'aiuto di Dio"». Jerome fece sfoggio di erudizione.

«Ma è anche una dichiarazione d'intenti» aggiunse il rabbino, mostrandoci una delle pagine che aveva con sé.

«Quando hai intenzione di scrivere qualcosa e parti con le lettere "BH", ti prepari a fare qualcosa di importante e sacro a cui devi applicarti pienamente, e chiedendo l'aiuto di Dio è improbabile che tu scriva le cose con trascuratezza, no? Quel "BH" in cima alla pagina ti obbliga a concentrarti e a tirare fuori il meglio di te, perché il Santissimo è stato chiamato in causa. Su una pagina a Lui dedicata non potresti scrivere menzogne, o oscenità, ma solo verità e cose che sono importanti e servono per un obiettivo».

«Affascinante», si entusiasmò Itamar. «Dunque mentre studi e prendi appunti, scrivi "BH" in cima alla pagina, oppure sai che ti dico? Scrivi qualcos'altro che ha per te un peso tale che ti faccia sentire obbligato a lavorare meglio. Così prenderai gli appunti al meglio possibile».

«Anche questa è una buona idea» confermò Jerome.

«Allora andiamo avanti» continuò il rabbino. «Sei seduto comodo, hai pregato e hai scritto "BH" in cima alla pagina. Adesso devi mettere a leggere e a imparare»...

20090220

Questione di feeling


Fonte: http://www.evergreenterrace.info/evergreenterrace.html


Sogno un intellettuale che distrugga ciò che è lampante e ciò che è universale, che sappia cogliere i punti deboli nelle inerzie e nei vincoli del presente, le crepe che aprono nuove strade, le linee di forza, qualcuno che sia sempre in movimento, che non sappia mai dove sarà o cosa penserà domani perché è troppo attento al presente: qualcuno che dia il suo contributo ovunque gli accada di trovarsi, chiedendosi se la rivoluzione valga la pena, e quale (intendo quale rivoluzione e quale pena), ed è chiaro che solo chi è disposto a mettere in gioco la propria vita ha le carte in regola per rispondere.

Michel Foucault

20090109

Uno che non le mandava a dire



Queste sono alcune poesie di Giuseppe Giusti, il libro si chiama Poesie ed è una ristampa anastatica del 1910 (a cura di Giosuè Carducci).

Oltre alle poesie ci sono delle liriche divertenti, sagge, ma anche molto sarcastiche.

Non potevo far altro che apprezzare...

Solo cinque poesie riporto ma che mi sembrano decisamente "attuali".

:)



La Chiocciola

(1841)

Viva la Chiocciola,
Viva una bestia,
Che unisce il merito
Alla modestia.
Essa all’astronomo
E all’architetto
Forse nell’animo
Destò il concetto
Del cannocchiale
E delle scale.

Viva la Chiocciola
Caro animale.

Contenta ai comodi
Che Dio le fece,
Può dirsi il Diogene
Della sua spece.
Per prender aria
Non passa l’uscio:
Nelle abitudini del proprio guscio
Sta persuasa
E non intasa.

Viva la Chiocciola
Bestia da casa.

Di cibi estranei
Acre prurito
Svegli uno stomaco
Senza appetito:
Essa, sentendosi,
Bene in arnese,
Ha gusto a rodere
Del suo paese
Tranquillamente
L’erba nascente.

Viva la Chiocciola
Bestia astinente.

Nessun procedere
Sa colle buone,
E più di un asino
Fa da leone:
Essa al contrario,
Bestia com’è,
Tira a proposito
Le corna a sé;
Non fa l’audace
Ma frigge e tace.

Viva la Chiocciola
Bestia di pace.

Natura, varia
Ne’ suoi portenti,
La privilegia
Sopra i viventi,
Perchè (carnefici
Sentite questa
)
Le fa rinascere
Perfin la testa;
Cosa ammirabile
Ma indubitabile.

Viva la Chiocciola
Bestia invidiabile.

Gufi dottissimi,
Che predicate
E al vostro simile
Nulla insegnate;
E voi, girovaghi,
Ghiotti, scapati,
Padroni idrofobi,
Servi arrembati;
Prego a cantare
L’intercalare:

Viva la Chiocciola,
Bestia esemplare.



Contro un letterato pettegolo e copista

(1845)

O carissimo ciuco,
O cranio parasito
All’erudita greppia incarognito;
Tu del cervello eunuco
All’anime bennate
Palesi le virtù colle pedate.

Somigli uno scaffale,
Di libri a un tempo idropico e digiuno,
Grave di tutti, inteso e di nessuno;
O meglio, un arsenale,
Ove il sapere, in preda alle tignole,
Non serba altro di sé che le parole.

Poichè sfacciatamente
Copi dei panni altrui l’anima nuda,
Scimmia di forti ingegni e Zoilo e Giuda;

Smetti o zucca impotente,
Di prenderti altra briga;
Strascica l’estro sulla falsariga.


Consiglio a un consigliere

(1847)


Signor Consigliere
Ci faccia il piacere
Di dire al Padrone
Che il mondo ha ragione
D’andar come va.
Dirà: - Padron mio,
La mano di Dio
Gli ha dato l’andare;
Di farlo fermare
Maniera non v’ha.
Se il volo si tarpa
Calando la scarpa
A ruota nostrale,
Che ratta sull’ale
Precipita in giù.
La ruota del mondo
Andrà fino in fondo:
né un moto s’arresta
(Stiam lì colla testa)
Che vien di lassù.
Per tutto si vede
Che il carro procede
Con dietro una calca
Che seco travalca
Con libero pié:
E mentre cammina,
Con sorda rapina
I gretti, i poltroni,
I servi, i padroni,
Travolge con sé.
Tra i re del paese
Qualcuno l’intese:
E a dirla tal quale,
Più bene che male
N’ottenne fin qui.

Slentando la briglia,
Tornò di famiglia;
Temeva in quel passo
Di scendere in basso
E invece salì.
Giudizio Messere!
Facendo il cocchiere
In urto alla ruota,
Si va nella mota;
Credetelo a me.
Pensando un ripiego
Io salvo l’impiego
E voi (dando retta),
Rivista e corretta,
La paga di un re.


L’Arruffa Popoli

(1848)

Ateo, salmista, apostolo d’inganno;
Vile se t’odia; se ti palpa abietto;
Monco al ferro, centimano al sacchetto;
Nel no, maestro di color che sanno:
Sotto l’ammanto dello stoico panno
Cela il cor marcio e ‘l mal dell’intelletto;
Invidioso, oltracotante, inetto;
Libera larva di plebeo tiranno:
Tutto sfa, nulla fa, tutto disprezza:
Sonnambulo ha il cervello e la scrittura,
Sofista pregno d’infeconda asprezza:
Fecondità del mulo, a cui Natura
Diè forte il calcio e più l’ostinatezza
Ed i coglioni per coglioni natura.


I più tirano i men

(1848)

Che i più tirino i meno è verità,
Posto che sia nei più senno e virtù;
Ma i meno, caro mio, tirano i più,
Se i più trattiene inerzia o asinità.
Quando un intero popolo ti dà
Sostegno di parole e nulla più,
Non impedisce che ti butti giù
Di pochi impronti la temerità.

Fingi che quattro mi bastonin qui,
E lì ci sien dugento a dire: Ohibò!
Senza scrollarsi o muoversi di lì;
E poi sappimi dir come starò
Con quattro indiavolati a far di sì,
Con dugento citrulli a dir di no.


20081217

(NO) Blood Revolution

Tratto da Disobbedienza Civile - Henry Thoreau

Per sei anni non ho pagato la poll-tax. Per questo sono stato incarcerato per una notte e mentre me ne stavo lì, a osservare quei muri di pietra massiccia spessi due o tre piedi, la porta di legno e di ferro dello spessore di un piede e l'inferriata dalla quale filtrava la luce, non potei fare a meno di riflettere sull'assurdità di quella istituzione che mi trattava come se fossi stato semplice carne, sangue e ossa, da mettere sotto chiave.

Mi colpiva che, alla fine, avesse dedotto che questo era il migliore uso che poteva fare di me, e che non avesse mai pensato di avvalersi in qualche altro modo dei miei servigi. Capii che se c'era un muro di pietra fra me e i miei concittadini ce n'era uno ancora più difficile da scalare o sfondare, prima che potessero arrivare a essere liberi come lo ero io.

Neppure per un momento mi sentii imprigionato, e quei muri mi sembravano solo un grande spreco di pietra e di malta. Mi sentivo come se solo io, fra tutti i miei concittadini, avessi pagato la mia tassa. E loro, naturalmente, non sapevano come trattarmi e si comportavano da ignoranti.

In ogni minaccia e in ogni cortesia c'era grossolanità, poiché credevano che il mio più grande desiderio fosse quello di trovarmi dall'altra parte del muro di pietra. Non potevo fare a meno di sorridere notando con quanta cura essi chiudevano a chiave le porte che imprigionavano i miei pensieri, che tuttavia li seguivano anche fuori, senza alcun vincolo o impedimento, e che in realtà rappresentavano l'unico pericolo.

Dato che non potevano raggiungere me, avevano deciso di punire il mio corpo; proprio come i ragazzini, che se non possono arrivare a qualcuno per il quale portano rancore finiscono per maltrattarne il cane.

Capii che lo Stato era stupido, timoroso come una zitella in mezzo all'argenteria, incapace di distinguere gli amici dai nemici: persi tutto il rispetto che mi era rimasto nei suoi confronti, e lo compatii.

20081122

Déjà vue


Un dato di fatto per niente trascurabile è che dai tempi de Lo Hobbit non mi divertivo così tanto nella lettura di un libro.

La constatazione nasce dall'idea che trovarlo spassoso è semplicemente terrificante, date alcune delle situazioni descritte.

E invece no.

Rispecchia esattamente il mio gusto ovvero uno stravolgimento delle convenzioni, un pugno nello stomaco sferrato senza sforzo, con una naturalezza e semplicità imbarazzanti.

Sto parlando dei racconti di Jerry Romano raccolti in un volumetto dal titolo Ragliando disperato.

Situazioni grottesche ma (ahinoi) non impossibili, descritte con sarcasmo e originalità, spiazzanti, meschine, e cosa che me lo fa rendere memorabile, con una maniera cruda (eppure spiritosa) di squarciare l'odiatissimo velo dell'ipocrisia.

Ne riporto tre tra i più "morbidi" ma ne consiglio vivamente la lettura.


Fine di Arturo

Entrai nel salone con un'espressione raggiante. Infine ce l'avevo fatta, ma nella testa mi riecheggiava il lamento di Arturo ... Davanti agli occhi avevo il suo sguardo incredulo. Incredulo, ma in qualche modo comprensivo. Scusa Arturo, ma quel giorno avevo bisogno del mio miglior sorriso.

Erano più o meno cinque anni che aspettavo l'invito di Tozzetti per la festa di Natale.

Nella sua tenuta di campagna ogni 23 dicembre il Commendatore offriva ai collaboratori più fidati e meritevoli un ricco cenone, durante il quale i loro rapporti personali si stringevano o si consolidavano; essere invitati in quell'occasione poteva significare cambiar vita.

Per quindici anni mi ero fatto il mazzo in azienda, svegliandomi alle cinque per raggiungere orrendi cantieri lontani, sbrigando rogne che nessun altro s'accollava, prendendo lavate di testa per qualunque cosa non filasse...

La mattina del 18 dicembre avevo visto Giulia, la segretaria personale del Commendatore, girare per le stanze con il mazzetto di buste presidenziali in mano e pregavo perché s'avvicinasse. Me lo meritavo quell'invito, perdio. Invece quella andava da Giorgiani il delatore, da Sciuto il leccaculo, dalla Verduzzo la vipera...

Con le mani tragicamente vuote, infine, ritornò verso lo studio di Tozzetti e mi cascò il mondo addosso.

Mi veniva da piangere, non sapevo se aspettare pazientemente ancora un anno o alzarmi e uscire da quell'ufficio rovesciando qualche scrivania.

Mentre sentivo il sangue pomparmi sulle guance, udii nuovamente il suono di quei tacchetti puttaneschi venire verso di me e, subito dopo, la testona mesciata di Giulia fece capolino nel riquadro della mia porta:

«Ortè, tietti forte ...».

«Che c'è?», dissi facendo finta di niente, ma col cuore in tumulto.

«Questa il Commendatore se l'è lasciata per ultima: "preg.mo dottor Ortensi", c'è scritto. Auguri cocco, oggi hai svoltato».

Aprii il sospirato invito e dovetti correre al gabinetto per l'emozione. Seduto sulla tazza, lessi e rilessi le parole del capo: mi mandava addirittura a prendere a casa!

Passai le notti successive pensando a cose intelligenti da dire, divorando centinaia di pagine web sulle tendenze manageriali emergenti, ma anche sull'arte concettuale, sul nuovo cinema afgano e la viticoltura nella West Coast ... Per non raccontare della fatica dovuta alla scelta del vestito e ancor di più del pensierino natalizio da portare al Commendatore: in quel caso, guai a esagerare, un regalo appariscente mi avrebbe etichettato nella migliore delle ipotesi come provincialotto. Scelsi accuratamente un "semplice" CD musicale, in realtà costosissima leccornia per intenditori di classica contemporanea; di certo, non sarebbe stato mai ascoltato, confidavo però che l'avrebbe fatto analizzare da esperti.

Così arrivò il 23 dicembre. La mia giornata cominciò alle 10 precise con l'appuntamento da Gastone per un'acconciatura curata ma dall'assetto sportivo. Alle 12 ero in sartoria per prova e ritiro del trebottoni nuovo, alle 13 e 30, crackers, tonno e Tavernello davanti al TG3, alle 14 circa ... Sonno profondo.

Sarà stato per la stanchezza accumulata, o forse per lo stress, che mi svegliai solamente sentendo abbaiare il mio vecchio cane all'indirizzo del citofono; aprii gli occhi e m'accorsi che tutt'intorno era buio. Il cuore mi saltò in gola e gli occhi volarono all'orologio. Mai potrò scordare la posizione delle lancette del mio finto Rolex: le venti e sette! Mi catapultai alla cornetta e farfugliai un paio di parole a caso, dalla strada mi rispose una voce cortese:

«Buonasera, dottor Ortenzi. Mi manda il Commendator Tozzetti, sono venuto a prenderla».

«Ehm, sì, certo. Mi ... mi dà ancora un minuto?».

«Naturalmente dottore, l'aspetto proprio qui sotto».

Ma quale minuto! Avrei avuto bisogno di un paio d'ore per sistemarmi decentemente. Saltai sul letto e corsi al cesso, montai sul bidet pisciando e lavandomi allo stesso tempo. Completamente fradicio dalla cintola in giù, mi rassettai la capigliatura spruzzando colonia tutt'intorno; corsi poi nuovamente in camera e, piroettando sul letto, tentai un inforcamento al volo dei nuovissimi pantaloni.

Roteando in aria, vidi la mia fine sotto forma di spigolo del comodino.

Ci finii dritto con la bocca. Più che il dolore non scorderò il rumore: come un ceppo di legno che si spacca sotto un buon colpo d'ascia.

Ragliando disperato, portai la mano agli incisivi. Incisivi non originali, a dire il vero; si trattava infatti di un ponte dentario impiantato un paio d'anni prima, successivamente a una lite in cantiere con un manovale cagliaritano. Li osservavo inebetito, quei due costosissimi denti di porcellana che mi ritrovai sul palmo mentre suonava ancora il citofono. Mi fiondai alla cornetta.

«Fì?».

«Perdoni dottore, il Commendatore mi ha raccomandato la puntualità. Sa, il discorso di benvenuto ...».

«Faccio fùbito!».

Mi ficcai un tovagliolo in bocca e corsi al cassetto dove conservo gli utensili; per fortuna trovai subito il Bostik.

Premetti fra le dita il tubetto fino a riempire di colla i fori nelle gengive, poi spinsi dentro la protesi per un paio di minuti. Dopo la sopportazione di un terribile bruciore, constatai con gioia che l'apparato sembrava incredibilmente tenere, purtroppo però, le esalazioni urticanti della colla salirono rapidamente su per le fosse nasali. Capii subito che non c'era verso di frenarlo, quello starnuto, così mi voltai verso il lavabo della cucina e sparai il colpo. Con infinito orrore sentii tintinnare qualcosa giù per lo scarico del lavandino e la lingua tremante confermò la nuova perdita della protesi. Grazie a dio, però, sapevo dov'era finita.

Nel medesimo cassetto del Bostik conservavo anche una chiave inglese, con 1a quale avrei potuto svitare il sifone e recuperare il preziosissimo reperto. Sputando sangue tentai con quell'attrezzo di far girare la corona superiore, senza però alcun risultato: il calcare decennale, se non si usano prodotti adeguati - lo sanno tutti - non s'intacca.

Allora l'idea: presi l'aspirapolvere nello stanzino e smontai il terminale a scopetta; al suo posto innestai il becco piccolo, quello per gli angolini, lo introdussi nello scarico del lavandino ed accesi l'elettrodomestico. Dopo aver succhiato un po' di sciacquatura di piatti, sentii con gioia trotterellare i dentini su per il corrugato.

Afferrai un coltello da bistecca, aprii lo sportellino dell'aspiratore e squartai il sacchetto che c'era all'interno. L'acqua che avevo aspirato dal sifone aveva formato, insieme all'abbondante polvere, una melma in cui era difficile cercare l'affarino. Non mi diedi certamente per vinto e nella poltiglia nerastra trovai infine i miei poveri incisivi di porcellana. Li tirai fuori con calma, stringendoli con forza tra pollice e indice per paura che a causa della loro scivolosità mi sfuggissero di mano. Ero a un passo dalla soluzione: dopo un bel risciacquo, la colla cianoacrilica sarebbe certamente riuscita dove il Bostik aveva fallito.

I1 destino, però, spesso è implacabile e ancora una volta trillò il citofono maledetto, causandomi uno spasmo nervoso che fece schizzar via i denti dalle dita viscide. Caddero e s'infilarono fra la poltrona e la cuccia di stoffa del mio vecchio cocker. Afferrai con rabbia la cornetta:

«Hai rotto il cazzo! Ti do cento pezzi fe mi afpetti ancora e poi dici al capo che c'era traffico».

«Con cento mi ci spazzo il culo, dottore. Facciamo trecento per altri cinque minuti al massimo. Poi giuro che torno indietro e dico al Commendatore che lei s'era scordato del suo invito di merda».

«Occhei».

Mi tuffai per terra spiaccicando la guancia sul marmo, nel tentativo d'infilare lo sguardo sotto al divano, ma laggiù dei miei denti neanche l'ombra. Sullo sfondo della scena però, richiamato da un tossire canino, notai la mia bestiola sforzarsi nell'ingoiare qualcosa d'insolito... Mi tuffai su di lui e l'afferrai per il collo peloso.

«Fpùta! Fpùta, brutto cagnaccio! Ti fei pappato i miei denti!».

Lo sbattei, lo rovesciai, poveretto, ma ormai la protesi era andata giù; allora gl'infilai tre dita in fondo alla gola con la speranza di farlo vomitare. Un paio di conati ed uno schizzo di succo gastrico, questa fu la miseria che riuscii ad ottenere! Tre buoni minuti se n'erano già andati, ero disperato, a quel punto afferrai il coltellone da bistecca. Non avevo altra scelta.

«Qua, Arturo. Vieni bello», gli dissi, sapendo che a quelle parole si metteva a pancia in su per farsi coccolare, povero vecchio amico mio.


Elettrico Climax

Mi stavo facendo Andreina Pelanti di Ripalunga. Non ci potevo credere, me la stavo proprio facendo sul serio. Quello che non sapevo ancora è che di lì a poco avrei provato sensazioni sconosciute e inimmaginabili.

Tutto cominciò il giorno dopo il piccolo intervento che avevo subìto al setto nasale. Ero nella mia camera in clinica e leggevo, completamente a mio agio e perfettamente riposato; ad un tratto sentii bussare delicatamente alla porta, era la suorina che si occupava di me.

«Scusi il disturbo, volevo controllare la medicazione».

«Venga sorella, si accomodi. Mi sento già piuttosto in forma, sa?».

«Questo mi fa piacere. Vedrà avvocato, fra un paio di giorni sarà come nuovo... Sente dolore?», disse iniziando a scartare il mio naso.

«Per niente, solo un po' di prurito».

«La medicazione è a posto, adesso controlliamo la febbre. Le accendo la tivù, intanto?».

«Faccia lei. Non c'è mai niente d'interessante.»

«Scusi se mi permetto - disse scrollando il termometro, ma fra cinque minuti va in onda il meglio di Bunker».

«Bunker?».

«Non mi dica che non lo ha mai visto. Sa, il reality show in cui una dozzina di vip sono rinchiusi in un rifugio antiatomico».

«Ah sì ... Mi pare ...», farfugliai. Lo conoscevo benissimo invece, a dire il vero non ne avevo perso una puntata. Mi vergognavo solo a dirlo.

«Peccato che non lo abbia seguìto, è proprio divertente - continuò la suora, premendo un tasto del telecomando. Questa sera però si potrà rifare: ripropongono i momenti più appassionanti dell'intero ciclo. Se non le dà fastidio, attenderei qui la misurazione della sua temperatura».

«Nessun disturbo, sorella. Così mi potrà illustrare i particolari del programma».

Lo spettacolo stava iniziando: musica dal vivo, luci, sorrisi e tanti appalusi.

«Vede avvocato, seduti dietro alla presentatrice ci sono tutti i partecipanti: attori, modelle, nobildonne, calciatori, molti certamente li conosce».

Hanno passato due mesi a scannarsi in un rifugio dieci metri sottoterra, ed ora che lo show è finito sembrano di nuovo grandi amici. Ah, che mistero l'animo umano...».

«C'è un sacco di gente, vedo. Anche quella giornalista del TG».

«é molto simpatica. Però, mi permetta, fra tutte le donne si distingue la contessa Pelanti: elegante, raffinata, incredibilmente bella, non trova?».

«Sì, sembra proprio splendida», dissi, fingendo di non conoscerla.

«Un metro e settantotto - specificò curiosamente la suora-, taglia quarantadue e una quarta naturale di seno, é un vero spettacolo la contessa, sensuale bellezza e innata eleganza: il Signore non è stato davvero avaro con lei. Beh, ora vediamo se ha la febbre».

Guardavo la suora piuttosto incuriosito. Parlava di quella donna con un trasporto che non mi sembrava del tutto normale. Poi continuò: «Trentasette e due, avvocato. Appena due linee di febbre, ma non escludo che le siano venute guardando la contessa Pelanti, eh?».

«Beh, sorella, non esageriamo...», ridacchiai con una vena d'imbarazzo.

«Esageriamo invece. Quanto pagherebbe per... Sì, insomma, per...»

«Per?...»

«...farsi la contessa, ecco».

«Ho sentito bene?».

«Su, dica avvocato: per accoppiarsi con la Pelanti di Ripalunga - una volta sola, però - quanto?».

«Cosa dice, sorella?».

«Uff! Ma quanto è barboso! Si fa per dire, per passare un paio di minuti in conversazione».

«Mi scusi, mi ha preso un attimo in contropiede».

«é imbarazzato perché sono una monachella, forse? Lei deve ampliare le sue vedute, sa? Siamo persone moderne, parliamo di tutto, oggi... A1lora, quanto?».

«Beh, se la mette così... Diciamo diecimila euro».

«Sta scherzando, vero? C'è chi darebbe centomila, magari uno sceicco anche un milione».

«Per carità, non ne dubito. Io però ho fatto un calcolo realistico, secondo le mie personali possibilità economiche».

«Facciamo il doppio e fissiamo l'incontro».

«Incontro? Ma che burlona!».

«Burlona un corno! Ventimila euro e la nobildonna è a sua disposizione».

«Che venga fuori il cameraman, io non ci casco».

«Non c'è nessuna telecamera nascosta e questo non è uno scherzo, avvocato. Lei si rivolge con fiducia alla nostra clinica da molti anni e noi vogliamo ricompensarla offrendole un'opportunità irripetibile. Ma se lei è un tale bacchettone, faccia finta che non abbia detto nulla. Beh, s'è fatto tardi - disse acidamente andando verso la porta -, e per le due lineette, si metta la suppostina».

«Ferma là, sorella. Cosa significa questo scherzo?».

«E dagli co' 'sti scherzi - disse alzando gli occhi al cielo e rimettendosi pazientemente a sedere -. Vede, il caso vuole che la contessa sia qui per eliminare delle leggerissime rughe che sostiene le siano comparse al lato degli occhi dopo lo stressante reality. Domattina sarà dunque in sala operatoria, dolcemente addormentata... Per tutto il tempo che vogliamo. Abbiamo pensato che questa circostanza avrebbe potuto interessare un uomo raffinato come lei: un piccolo assegno e domani stesso lei si toglie un bel capriccio».

«Vediamo se ho capito: pago ventimila e mi faccio la Pelanti sotto anestesia. A sua insaputa, naturalmente. é così?».

«Proprio».

«Beh, è una cosa indegna!».

«Ma che parolone! Ottimizziamo semplicemente le nostre risorse».

«E dove accadrebbe tutto questo?».

«In sala operatoria. Lontano da occhi indiscreti e sotto costante controllo medico».

«Capisco... è una proposta che avete fatto solo a me?».

«Non proprio, avvocato. Vi è una ristrettissima cerchia di estimatori che già hanno aderito senza esitazione. Si tratta di altri due o tre apprezzati professionisti che frequentano la nostra clinica da anni».

«Quindicimila».

«Diciottomila e la chiudiamo lì. Me lo fa subito l'assegnetto, però».

La mattina seguente, intorno alle nove, scesi verso il piano interrato (dove si trovava la sala operatoria) in pigiama di seta e giacca da camera. Prima di giungere in fondo alla rampa incrociai un paio di degenti che risalivano tutti allegri, uno di loro mi fece una complice risatina con occhiolino. Non appena arrivato in basso, fui indirizzato in una sala d'aspetto già popolata da una ventina di signori e forse più, tutti in eleganti vestaglie a chiacchierare amichevolmente. Colsi alcuni stralci di conversazione: «Beh, davvero non si poteva rinunciare», diceva un tizio con i baffetti alla David Niven.

«Ah, certamente. L'unico rischio è essere troppo veloci», gli rispose il vicino.

«Non sarà mica venuto qui tutto carico, vero?».

«Non sono mica scemo. L'emozione però fa ugualmente brutti scherzi, a volte».

«Ehi, ho sentito! - intervenne un infermiere basso e tarchiato che s'aggirava arcigno fra gli ospiti -. Cosa vi siete messi in mente? Quella tipa ronfa già da un'ora e mezza, non possiamo mica farla dormire fino a domani! Cinque minuti a testa e poi sgommare! Capito? A proposito, l'ingegner Carletti sta veramente esagerando! - aprì la porta della sala operatoria e cominciò a sbraitare - A Carlo, se non schioda da lì, vengo a prenderla a sediate!».

Si sentì rispondere dall'interno: «Falla finita, tappo! Con quello che ho
pagato, 'sta miciona me la monto fino a che non crepo!».

L'infermiere, inferocito, entrò in sala e ne tornò fuori in dieci secondi,
tirando per un orecchio l'anziano ingegnere seminudo.

«Cinque minuti e non di più, è chiaro per tutti?», disse fissandoci con uno sguardo da assassino. In quello stesso momento, dalla sala operatoria qualcuno chiamò: «Generale Baldanzellu!».

«Generà, è il suo momento! - intervenne ancora l'uomo - La smetta di toccarsi e suoni la carica, forza!».

Passai in sala d'attesa un paio d'ore in conversazione con alcuni degli eccitati estimatori della Pelanti. Ebbi conferma che la "ristrettissima cerchia" di buongustai era organizzata secondo la consistenza dell'offerta economica: i più generosi si facevano la signora per primi. Finalmente venne il mio turno.

«Avvocato Oliveri!», strillarono dalla sala.

«Daje Olivé, una bella botta e tanti saluti!», commentò puntuale il miserabile infermiere. Passando, lo guardai con disprezzo. Entrai mentre stavano ancora risistemando le gambe della contessa sui supporti, mi avvicinai al tavolo e ammirai le sue splendide forme, poi le palpeggiai i seni ed ebbi la prova di un vero miracolo naturale. Un dottore piuttosto anziano con un lezioso pizzetto bianco mi fece segno con la mano di stringere i tempi, mentre una donna dell'équipe- dalla sistemazione sembrava essere la ferrista - mi consegnò un kit operativo composto da profilattico Flirt alla fragola e lubrificante Trasir a base acquosa. Mi preparai in un secondo e m'infilai fra le gambe della contessa, a quel punto tutti quanti si girarono discretamente per compilare un sistemino Lottomatica.

Mi stavo facendo Andreina Pelanti di Ripalunga.

Non ci potevo credere, me la stavo proprio facendo sul serio. La possedevo con romantico vigore mentre ascoltavo in sottofondo il bellissimo Come le Viole (Gagliardi-Amendola) diffuso dal sistema audio della sala. Ad un tratto, la sentii gemere flebilmente e m'illusi che fosse merito mio; volli approfittare del suo debole segnale di vita per rendere ancora più eccitante la situazione:

«Dimmi ancora che ti piace, Andreina», dissi schiaffeggiandole una coscia.

«Chi... chi sei?», mi sentii inaspettatamente rispondere.

«Ehm, il mio nome non ha importanza...», continuai, cercando di non perdere la concentrazione. In quello stesso istante il dottore col pizzetto si girò con gli occhi sbarrati:

«Con chi diavolo sta parlando, lei?».

«Beh, con la contessa», risposi.

«Come, con la contessa! - gridò, volgendo lo sguardo su di lei - Oddìo se svegliata! Guattelli, invece di grattarti i coglioni, pompale una bomba d'anestetico prima che ci capisca qualcosa! Di corsa!».

L'anestesista, impallidito, si precipitò con la mascherina in mano.

«Che cazzo ci fai con quella, cretino! Dalla a tuo figlio a carnevale! urlò il vecchio chirurgo - Spara in vena cinquecento milligrammi di Ketarol!».

«Ma... ma, se n'è già beccata quasi due grammi... Mi sembra esagerato».

«Esagerati sono gli anni di galera che ci appiopperanno!».

«Che mi state... facendo...?», gemette di nuovo la Pelanti, mentre Guattelli la inzeppava d'anestetico.

«Non è nulla tesoro, goditi questo dolce istante», le sussurrai intensificando la mia azione. Il Ketarol, in breve, le invase ogni fibra e il suo splendido viso si rilassò, pensai che fosse più bella di un angelo. Già... un angelo: all'improvviso, almeno una mezza dozzina di monitor accelerarono i "bip" fino ad emettere un unico interminabile fischio. «Ecco, l'ho fatta godere per benino», mi rallegrai, e invece scoppiò il putiferio.

«Il polso è crollato! I1 cuore non regge! - urlò il canuto chirurgo -. La stiamo perdendo!».

«é tutta colpa tua, vecchiaccio dimmerda!», gli ringhiò Guattelli.

«Ahò, l'anestesista sei tu. Io non c'entro un cazzo!».

Dal canto mio, continuai a scopare a testa bassa, serrando il ritmo per tentare di prendermi la giusta soddisfazione prima che Andreina se ne volasse all'altro mondo.

«Marciremo in galera!», si disperava l'infermiera di sala, mentre la ferrista scivolava lungo la parete verso l'uscita.

«Rianimazione cardio-polmonare!», urlò Guattelli.

«é la fine, è la fine!».

«Zitta, stronza! Schiaffa dieci milligrammi di adrenalina nel catetere centrale! Ehi, dove sono finiti il vecchiaccio e la ferrista?».

«Se la sono data a gambe», gli risposi, senza però distrarmi. Il sibilo spettrale delle macchine dominava su tutto. Continuai: «Senta, ho l'impressione che la contessa mi si stia raffreddando sotto le mani e l'adrenalina pare che non faccia un cazzo. Qualcosa di più deciso, magari?».

«Non c'è altra scelta ... Defibrillatore! - disse, tendendo le mani verso l'infermiera e senza distogliere lo sguardo dalla paziente - Defibrillatore ho detto!».

«S'è dileguata pure quella», gli comunicai.

«Occhei, salveremo la contessa da soli», decise il coraggioso anestesista impomatando le piastre: «é facilissimo, sa? - continuò, passandomi gli attrezzi - Le metta queste sul petto e non le molli, io le do corrente».

«Ehm, intanto, posso continuare a...».

«Faccia come crede. Sarà un bel colpo però, l'avverto».

«Vabbe', proviamo e chissene frega», dissi sistemando gli elettrodi sul seno della Pelanti, nella speranza di far coincidere lo shock da cardioversione con il mio imminente orgasmo. Continuai: «Ecco dottore, glielo dico io quando tirare la botta. Ecco, ecco, ci siamo... Uno... Due... E tre!».

La scossa fu tremenda. Nell'attimo stesso in cui il flessuoso busto della contessa sobbalzò sul tavolo operatorio, uno spasmo incontrollabile provocò in me una sconvolgente estasi. In meno di un istante una sorta di bolo energetico esplose frizzandomi i testicoli per poi dilagare, seguendo il percorso perineo-spinale fino alla punta dei capelli. Sentii il cervello espandersi, e per un attimo ebbi la stupefacente sensazione d'essere permeato dalla conoscenza universale: seppi il nome segreto di Dio e la capitale della Kamchatka, ebbi svelati i confini del cosmo e la formula delle Dietorelle. A quel punto fu netta la sensazione che la dimensione spazio temporale si dilatasse all'infinito, ed ebbi la mistica visione del cantante Nicola di Bari a cavallo che, ammiccando, mi porgeva una Cedrata Tassoni. Sorseggiando il gustoso drink, mi voltai indietro e vidi la scena della sala operatoria come in un logoro film d'epoca, color seppia e senza sonoro. Mi osservai, inquadrato a mezzo busto: m'impressionarono i capelli ritti e gli occhi bianchi rivoltati all'indietro. Le spalle erano scosse da un violento tremore e la bocca piegata in una smorfia, che poteva essere di sconfinato dolore oppure di sublime godimento. Nell'inquadratura, improvvisamente, vidi Guattelli comparire alle mie spalle con uno sgabello in mano. Mi colpì, e nella pellicola, così come intorno a me, tutto si fece buio.

Petropavlovsk.

Mi svegliai con questa parola nella mente senza avere la benchè minima idea di cosa significasse. Ero steso sul letto, tutto sommato sereno, ma con un certo bruciore ai genitali. Pian piano riaffiorarono i ricordi: la sala operatoria, la splendida contessa, l'amplesso estatico. Un brivido percorse lungamente la mia schiena. Ad un tratto, qualcuno bussò.

«Avanti».

«Ehm posso?».

«Dottor Guattelli! Venga, la prego».

«Come si sente?».

«Piuttosto bene».

«Mi scusi per il colpo che le ho dato, ma si era reso necessario: dopo la scossa era rimasto sotto shock, incollato alla contessa. Ho temuto che le venisse un attacco cardiaco».

«Ha fatto quello che doveva, dottore. E, mi dica... La signora?».

«Ce l'ha fatta ed ora sta bene, grazie a Dio. Non ha il minimo ricordo di ciò che le sia accaduto».

«Meno male».

«Noi due le abbiamo salvato la vita, avvocato, ma non potremo vantarcene con nessuno, né aspettarci un suo ringraziamento».

«Già. Io una bella ricompensa però l'ho avuta. Ho sperimentato l'apice del piacere, ho avuto la visione della Conoscenza. A proposito Guattelli, le posso chiedere di farmi portare un'enciclopedia? Volume "P", cortesemente».

«Ci mancherebbe, me ne occupo subito».

Ci salutammo e dopo una decina di minuti un'infermiera sorridente mi consegnò un gran librone rilegato in pelle. Mi misi comodo e cominciai a sfogliare.

Pe... Tetrarca... Petrolio... Ecco, Petropavlovsk: capoluogo della penisola di Kamchatka' 6100 ab.


Carte Preziose

Sarebbe toccato a me, dunque, riaccendere un barlume di fiducia nel nostro partner americano e convincerlo ad allentare i cordoni della borsa per ridarci la possibilità di tirare ancora avanti la carretta. Lo capii quando l'amministratore delegato mi prese sotto braccio, come se mi fosse amico, per portarmi alla "Taverna Chiantigiana".

Ci sedemmo e un paio di camerieri si assicurarono che fossimo completamente a nostro agio. I1 capo non perse tempo:

«Lo capisci bene, Jacopo, che io alla riunione di oggi non mi posso neanche far vedere. Gli sto sui coglioni a Milland, anzi mi odia. Allora gli ho fatto credere che mi è venuta una colica renale e che sono a letto, piegato come una Graziella... Quella carogna! Ti assicuro che mi avrebbe già fatto buttare sotto a un treno, se non avessi sposato quella cozza di sua nipote».

«Milland mi sputerà in un occhio, Oliviero, sono il manager più giovane».

«Ma anche il più in gamba! Hai carisma, sei preparato, convincente e snoccioli un americano che manco ad Harward ... Jacopo, credimi, vicino a te gli altri dirigenti sembrano pupazzi del Museo delle Cere, tu sei l'unico che qui ancora abbia un po' di carica e che si possa intortare quel cowboy, é la tua occasione, fa' capire a tutti chi comanderà la baracca, quando mi ritirerò al Golf Club».

Faceva schifo Oliviero Rezzuto. Era un infido adulatore le cui tumide labbra viola tremavano tutte quando s'animava nella discussione. Lavorando al suo fianco per anni, avevo avuto modo di capire che una bella fetta dei capitali esteri finiva regolarmente nelle sue tasche, in cambio di grosse fregature.

Sta di fatto che quel porco mi offriva un'occasione unica, e m'indicava chiaramente come suo erede alla conduzione dell'azienda.

«Ti consiglio la zuppetta di legumi, caro Jacopo», disse tagliando corto.

«Forse un po' impegnativa da digerire, ma è un delirio dei sensi. E ci scoliamo pure una boccia di Bianco d'Orcia, ti farà bene per l'incontro di oggi».

Divorammo un secchio di quella squisita minestra e non risparmiammo di certo sul vino. Prima di salutarmi, Rezzuto mi raccomandò di non lasciare che lo sguardo di Milland mi suggestionasse. «Quel bastardo - diceva - ha gli stessi occhi di Clint Eastwood, ti scavano dentro. Guai a sfuggirli però, sostienili e ti sarà più facile portare a casa qualche dollaro».

Entrai in sala riunioni con qualche minuto di calcolato ritardo, Milland e tutti gli altri erano già seduti; presi posizione e piantai subito le mie pupille in quelle azzurre, dell'ospite straniero, poi iniziai a parlare direttamente in americano, sicuro e gonfio come un tacchino.

«Buongiorno a tutti. Rivederla è un piacere, Mr. Milland. I1 dottor Rezzuto la saluta dal suo letto dove, come sa, è sottoposto a cure mediche. Comincerei con...». Improvvisamente si udì un rumore sinistro, simile a quello di un enorme lavabo che si stura. M'interruppi irritato, guardando di qua e di là, in cerca dell'origine di quei lunghi gorghi minacciosi. M'accorsi invece che lo sguardo dei presenti era indirizzato verso di me: sì, perché il rumore proveniva dal mio stesso intestino. Ne fui certo con l'arrivo di un secondo gorgoglìo, ancora più sonoro e profondo, accompagnato questa volta da dolori lancinanti. Ebbi l'impressione che invisibili mani stritolassero le mie viscere, mi sentii impallidire e mi piegai su me stesso. Feci appena in tempo ad alzare una mano in segno di scusa e precipitarmi fuori dalla sala. Galoppai lungo il corridoio a chiappe serrate; solo per pura fortuna riuscii ad entrare nel minuscolo gabinetto e abbassarmi i calzoni appena prima dell'esplosione.

Passarono alcuni minuti perché mi riprendessi; ad un rivoltante esame visivo mi fu chiaro che la terribile zuppetta di legumi avesse come forato il mio apparato digerente, quasi fosse un nòcciolo di plutonio. Maledetta Taverna Chiantigiana! La sua cucina azzardata rischiava di mandare all'aria un accordo storico con Milland, la mia consacrazione al vertice dell'azienda! Per vendetta avrei spedito al ristorante l'Ufficio d'Igiene con una telefonata anonima: «Ho trovato cacche di topo nella minestra», avrei detto.

In quell'istante sentii qualcuno entrare nell'antibagno: «Jacopo, ci sei? Stai male? - Era Zeno Cacioppo, responsabile delle Relazioni Esterne -. Sbrigati, che quello stronzo di Milland ha già detto che in questo ufficio siamo tutti malati...!».

«Sì, Zeno. Non puoi capire che casino. Adesso mi do una ripulita e arrivo ... Intanto di' a quella baldracca della Guarneri di aprirsi la camicetta fino all'ombelico e servire da bere a quel cagacazzi».

«Occhei, vado».

Portai una mano al contenitore metallico al fianco della tazza e rimasi come congelato al contatto con il cilindro di cartone del rotolo, completamente privo di carta igienica. Incredulo, disorientato, tuttavia non mi persi d'animo: dopo una sommaria riflessione aprii il portafoglio e tirai fuori tutti i foglietti ripiegati, quelli che non decidevo mai di buttar via. Li avrei utilizzati per togliere il grosso e avrei poi tentato di rifinire l'operazione con alcuni biglietti da visita.

Diedi fondo a tutto il cartaceo a disposizione, ma giuro che non fu minimamente sufficiente a permettermi di ritornare fra la gente. L'unica chance sembrava essere quella d'uscire di soppiatto dal gabinetto e montare su uno dei due lavandini dell'antibagno, posti l'uno di fronte all'altro, e lavarmi, sperando che non entrasse nessuno. Scaricai lo sciacquone, mi sfilai con cura pantaloni e mutande, aprii per una decina di centimetri la porta e buttai un'occhiata al di fuori. I1 luogo era deserto, c'era silenzio, niente passi sul corridoio... era il momento giusto!

Furtivo come un gatto, uscii dal loculo e con due balzi m'arrampicai sul lavabo. Incredibile a dirsi, ma prima ancora d'aprire l'acqua, la porta si spalancò. Rimasi di stucco. Cristo santo, era Milland! Ma come diavolo c'era arrivato là? Volando?

M'appiattii contro la parete e con orrore mi vidi riflesso sullo specchio del lavabo di fronte: ero sfatto come un cadavere e in più avevo il culo dove la gente normale si lava la faccia. Per grazia divina, però, il vecchiaccio entrò a testa bassa borbottando qualcosa di spregevole sugli italiani e si diresse verso il lavello opposto per scatarrare e sciacquarsi la bocca.

Quando si ritirò su, il suo stesso mezzobusto coprì miracolosamente la mia immagine specchiata. I1 cuore mi tambureggiava all'interno della cassa toracica, lo faceva tanto forte che fui certo che lo si potesse sentire; smisi allora di respirare, smisi perfino di pensare, ed infine mi sentii... Invisibile. Invulnerabile. Non so come spiegare: era talmente grave la situazione che - certamente per autodifesa - riuscii a proiettarmi in una dimensione euforica in cui mi pareva di poter addirittura controllare gli eventi: «Non mi vedrai, yankee - dicevo fra me e me -. Io sono qui, seduto mezzo nudo nel lavandino alle tue spalle, ma tu non mi vedrai. Girerai i tacchi, infilerai quella porta a testa bassa e te ne andrai».

Avevo una probabilità su diecimila che ciò accadesse, eppure accadde.

A capo chino, infatti, quello uscì dai bagni, sempre borbottando cattiverie in slang e senza avere il minimo sospetto che vi fosse stata anima viva in quei dieci-dodici metri quadri all'infuori di lui. Quando sentii i suoi passi allontanarsi, cominciai a ridacchiare sommessamente, in modo nervoso, e finalmente potei cominciare a lavarmi senza pudore. In quel momento esatto, Milland, come un maledetto fantasma rientrò inaspettatamente per sputare un ultimo residuo polmonare nel lavandino. Davanti allo specchio, si pietrificò.

Lo vidi chiaramente, con un filetto di bava penzolargli ancora dalla bocca, restare fulminato davanti alla mia immagine riflessa, che dovette sembrargli demoniaca. Non tentai nemmeno di reagire, rimasi a gambe squadernate e con una risata isterica stampata sul volto cereo. Milland si girò. Lentamente, come se non volesse credere che quella folle icona materializzata sullo specchio avesse un originale nella parete opposta.

«My God. Oh, my God...», furono le uniche parole che riuscì a pronunciare prima di farsi il segno della croce. Esitò ancora un attimo, impietrito davanti a quella scena incomprensibile, e poi se la diede a gambe. Io intanto, nel bel mezzo di un'orgia emotiva, scoppiai in un'impressionante risata e gli urlai dietro: «Ehi, Milland, vecchio taccagno, sgancia i soldi!».

Un istante dopo, come un orsacchiotto meccanico che esaurisce la carica, m'accasciai nel lavandino con le braccia pendule e la testa fra le ginocchia, piangendo disperatamente. In meno di mezzo minuto sentii accorrere frotte di gente nel corridoio e, purtroppo, cominciai anche ad avvertire i dolori squassanti dell'anginapectoris. Da mesi non mi affliggeva più, e purtroppo questo ritorno mi sembrava particolarmente violento.

In men che non si dica, nel piccolo ambiente si concentrò tutto il personale, inclusi un'apprendista segretaria e un giovane barista con la guantiera ancora in mano.

«Che cavolo succede qui? - esclamò Ciambelli, direttore amministrativo -. Oh, madonna mia! Ma... Ma che ci fa Vernazza accasciato nudo nel lavandino?».

«Sta male, non vede? - gli rispose qualcuno - é svenuto. Dio mio, cosa possiamo fare?».

Con enorme fatica, alzai di qualche centimetro la testa.

«I1 cuore... - riuscii a dire con un fil di voce -. La medicina salvavita... Andatela subito a comprare...».

«Come si chiama? Forza Vernazza, dicci il nome della medicina!».

«Nitrolin... Nitroangin.. Non ricordo... Ho la ricetta... ».

«Dove sta? Dove sta, maledizione?».

«Nel portafogli... Ci sono delle carte ripiegate... ». Nello stesso momento in cui pronunciavo quelle parole ricordai la fine che avevano fatto tutti i miei foglietti... E mi preparai al peggio.

La società fu venduta per quattro soldi e poi demolita, una trentina d'impiegati rimasero a spasso. Io me la cavai a buon mercato, furono sufficienti un paio di by-pass perché sopravvivessi ma, di certo, la mia carriera fu tragicamente segnata da quell'episodio: oggi consegno i pacchi col motorino, la mia zona è sempre il Centro, che conosco come le mie tasche. Mi sono dovuto far crescere la barba e anche una chioma fluente, per non farmi riconoscere in uffici nei quali ero ben noto. Una settimana fa, però, una segretaria intenta a firmarmi la ricevuta di una consegna mi guardava con insistenza... Andando via, mi fermai sul pianerottolo ad ascoltare dietro la porta. Sentii che diceva ad una collega:

«Quel morto di fame che porta le buste ha una faccia familiare, ci hai fatto caso?».

«Sei l'unica a non averlo ancora riconosciuto... », rispose l'altra, e intonò un odioso motivetto:

Sono Jacopo Vernazza,
con me al cesso si stramazza.
Sono il capo di una truppa,
rovinata da una zuppa.
Oh yeah!


20080917

Deontologia... anarchica!



Tratto da:

La società degli straccioni, Critica del Liberalismo, del Comunismo, dello Stato e di Dio - Max Stirner

Sentiamo dire, di solito, che senza religione la "grande massa" non ce la potrebbe fare; i comunisti estendono questa affermazione al principio che non solo la "grande massa" bensì tutti, senza eccezione, sono chiamati a tutto.

Non basta che la grande massa venga ammaestrata alla religione, ora deve essere istruita ad occuparsi addirittura di "tutto ciò che è umano". L'addestramento diviene sempre più generale ed avvolgente.

Ma povere creature, che potreste vivere tanto felici se poteste saltare a vostro modo! Invece dovete danzare al fischio di maestri di scuola e domatori d'orsi, per dei pezzi di bravura di cui proprio non sapete che fare! E non recalcitrate mai, neppure una volta, sebbene vi si consideri diversamente da come voi vorreste. No, voi meccanicamente ripetete a voi stessi la domanda che vi hanno insegnato a ripetere:

A cosa sono chiamato? Qual'è il mio dovere?

Così è sufficiente che vi domandiate questo per farvi dire e comandare quale sia il vostro dovere, per farvi prescrivere la vostra vocazione, oppure, anche, ve la comanderete e imporrete da soli, secondo le prescrizioni dello spirito.

Ciò significa, sotto il riguardo della volontà:

io voglio ciò che devo